mercoledì 16 novembre 2016

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 23: ERIC ANDERSEN (Blue River)

ERIC ANDERSEN  Blue River (1972)





Con i se e i ma non si ricostruiscono le storie. Ma se i nastri pronti e finiti, ma in copia unica, di STAGES, l’album che doveva uscire dopo questo, non si fossero persi per strada nel viaggio tra Nashville e New York, forse la carriera del folksinger nato a Pittsburgh avrebbe imboccato la strada di quel successo che invece non arrivò mai, se non circoscritto dentro quell’aura di culto che lo ha sempre avvolto e che spesso vale doppio. Questo il caso. Su STAGES l’etichetta Columbia puntò molto ma qualche dipendente distratto non era al corrente di tutto ciò (cose da ergastolo!), Andersen la lasciò immediatamente per accasarsi all’Arista, ma la frittata era ormai fatta: tre anni buttati al vento. STAGES uscì solo molti anni dopo, nel 1991, quando era troppo tardi, la magia dell’epoca svanita per sempre ma ancora in tempo per fare incetta di riconoscimenti. Così rimane BLUE RIVER, l’ottavo disco in carriera, il più famoso e celebrato per capire quanto Eric Andersen fu importante per una buona fetta di cantautori degli anni settanta. Le canzoni di protesta del Greenwich Village (‘Thirsty Boots’ la più famosa) vengono messe da parte per una maggiore ricerca interiore e meditativa, per liriche che cercano di tratteggiare la sfuggevolezza dell’amore. I trattti poetici e romantici delle sue canzoni, cantate con voce quasi sussurrata, trovano nella delicata produzione di Norbert Putman, nei morbidi arrangiamenti, nella voce di Joni Mitchell, ospite in ‘Blue River’ e in musicisti di prim’ordine come Dave Briggs, Eddie Hinton e David Bromberg tra gli altri, i giusti compagni di viaggio. Album che scorre puro e liscio tra intimismo e superbi tocchi di raffinatezza (le eteree ballate al pianoforte ‘Wind And Sand’ e ‘Round The Bend’) le belle chitarre di Andy Johnson e Bromberg (dobro) negli ariosi country ‘More Often Than Not’ e la più buia ‘Sheila’ (la mia preferita). Se BLUE RIVER è il totem della sua discografia, non mancano una manciata di buoni dischi in ogni decennio della carriera, comprese le ultime collaborazioni con Michele Gazich che rinsaldano il grande amore per l’Europa (in Norvegia piantò pure radici). Una carriera che ha preso il via al Greenwich Village a New York nei primi anni sessanta e continua ancora oggi. Un viaggio lungo e non ancora terminato. Eric Andersen ha visto morire troppo presto una buona parte della sua generazione (Phil Ochs, Tim Hardin, Fred Neil, Tim Buckley, Jim Croce) e oggi, a scapito di una carriera in seconda linea, può considerarsi un fortunato sopravvissuto. Quel ”Old Man Go To The River” che apriva la title track, oggi risuona ancora più vero e cristallino dentro le mie stanze.

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