lunedì 4 giugno 2012

RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO ( Once Upon A Time In the West )

THE WHITE BUFFALO  Once Upon A Time In The West ( Unison Music, 2012 )


 

Una delle sorprese più fresche ed accattivanti di quest'anno arriva da un personaggio che titola il suo secondo disco, poco originalmente: c'era una volta nel west.
Il suo aspetto fisico, un mix perfetto tra Warren Haynes e Jeff Bridges che recita la parte del grande Lebowski e quello nei panni di Bad Blake il cantante country di Crazy Heart, solo più giovane e prestante, può bastare a farsi un'idea della musica che Jake Smith, in arte The White Buffalo, suona. Quando poi arriva la voce, un pensiero corre subito all' Eddie Vedder solista e al "premio oscar" Ryan Bingham. Il quadro si completa mostrando anche l'animo da outsider e il paesaggio inquietantemente solitario in cui si muove, popolato da pochi di buono, poeti solitari, madri disperate, accecanti ritorni di memoria verso un' infanzia che "ha segnato", vecchi ex combattenti di un'America che da qualche parte sopravvive in questa antica e mitica  incarnazione. Voglia e ricerca di vera libertà.
Scusate se vi ho anticipato e tolto i piaceri dei paragoni. Ma non sono nemmeno gli unici.
Once Upon A Time In The West (omaggio a Sergio Leone?) è il secondo album dopo Hoghtide Revisited(2008) ed alcuni Ep. I White Buffallo, nome che oltre a rievocare il sacro bisonte dei nativi americani , ricorda vecchi western con Charles Bronson, comprendono oltre a Jake Smith, Tommy Andrews al basso e Matt Lynott alla batteria, e sono una vera e propria band proveniente dalla California.
La voce di Jake Smith è l'elemento catalizzante delle canzoni che, obiettivamente, non hanno nulla di veramente originale: americana che staziona in perfetto equilibrio tra le ombre crepuscolari di desolate ballate folk, oppure up-tempos trascinanti e sporcate sul polveroso ritmo di un country/rock viscerale che ripercorre i sentieri tracciati da vecchi fuorilegge come Waylon Jennings o lo Steve Earle di Copperhead Road, perdendone la parte più elettrica.
Ma un qualcosa di magico sembra sempre prevalere. Uno storytellers, quasi d'altri tempi, che affascina e seduce con il divino dono di una profonda voce da rocker che contrasta con il carattere intimo, nostalgico e doloroso delle sue liriche. Il contrasto è una delle armi di questo disco. 
I suoi testi raccontano di una vecchia America sonnolenta che sopravvive osservando il panorama di una piccola città di periferia accompagnati dal lento incedere di una carezzevole ninna nanna (Sleepy Little Town); la luce abbagliante di una luna che in poche ore lascia il posto a quella del sole senza modificare le pesanti e scure ombre di una lettera che non sarebbe mai dovuta arrivare (Ballad of a Dead Man); il crepuscolo di una notte in solitaria (One Lone Night) che diventa struggente (Wish It Was True) e grido d'indipendenza (I Am the Light).
Ma anche il treno in corsa che semina pistole e libertà nel country/rock veloce di How the West Was Won guidato da banjo (Cooper McBean), dobro e lap steel (Joey Malone); l'antico west in assetto da guerra-tra Cash e Morricone- (Good Ol' Day to Die); i sogni e le speranze che sembrano ricalcati su The Passenger di Iggy Pop (The pilot); malinconici ricordi d'infanzia (BB Guns and Dirt Bikes) e vecchie ferite dure da rimarginare (The Bowery). C'è perfino una divertente ma oscura filastrocca con tanto di fiati (The Witch) che sembra uscita da una festa gitana dentro a qualche sperduto campo nomade costruito nella Central Valley californiana.

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