sabato 23 dicembre 2017

RECENSIONE: CHUCK BERRY (Chuck!)

CHUCK BERRY  Chuck! (Decca Records, 2017)




Uno dei più grandi inni alla vita di questo 2017? Nell’Ottobre 2016, il giorno del suo novantesimo compleanno ci fu l’annuncio: nel 2017 sarebbe uscito CHUCK, il disco che avrebbe interrotto un silenzio discografico lungo quasi quarant'anni. Era il lontano 1979 quando uscì Rock It, l'ultimo prima di una lunghissima pausa dagli studi di registrazione. Il 2017 è arrivato fin troppo in fretta ma Chuck Berry non ha mai potuto assaporare il frutto di anni di registrazioni (la stesura delle canzoni risale al 1980 e arriva ai nostri giorni): il 18 Marzo ci ha lasciato e il suo nuovo disco non era ancora uscito nei negozi. Abbiamo dovuto aspettare fino a Giugno ma ne è valsa la pena: le dieci canzoni di CHUCK sono un prodigio senza tempo ed età, buone ora come lo saranno tra cinquant’anni, cento, mille. Chuck Berry accompagnato dai fidi Blueberry Hill, una sgangherata rock band da bar non certo dei session man strapagati, ripercorre la sua carriera con spirito e grande autoironia: l’autobiografica ‘Lady B.Goode’ è una chiara risposta alla vecchia e immortale ‘Johnny B.Goode’ e la musa ispiratrice è la moglie Toddy, il calypso di ‘Jamaica Moon’ si ispira a ‘Havana Moon’, ‘Big Boys’ con gli ospiti Tom Morello e Nathaniel Rateliff, è un nuovo inno in grado di stare accanto ai vecchi successi. Non c'è nulla di nuovo ma sembra tutto fresco e vibrante come fossero ancora gli anni cinquanta. Riunisce intorno a sé i famigliari, quasi volesse da loro un lungo caldo abbraccio. Nell’apertura ‘Wonderful Woman’, dedicata come tutto il disco alla moglie Toddy, sono riunite tre generazioni di chitarristi: lui, il figlio Charles Berry Jr. e il nipote Charles Berry III, oltre all’ospite Gary Clark Jr.. La figlia Ingrid è ai cori e duetta in ‘Darlin’, una country song dove Berry sembra prendere consapevolezza del tempo giunto ormai agli sgoccioli e canta “my dear, the time is passing fast away”. Già. Troppo veloce ma non abbastanza per riuscire a scrivere un piccolo classico senza tempo all'età di novant’anni. Un volta disse:”Non penso di fare uno spettacolo per nostalgici. La musica che suono è ormai un rituale. Qualcosa che sta a cuore della gente in maniera speciale. Non vorrei interferire con questo”. Anche questa volta non l’ha fatto.


RECENSIONE: MAGPIE SALUTE-Magpie Salute (2017)
RECENSIONE: ELLIOTT MURPHIE-Prodigal Son (2017)
RECENSIONE: GARLAND JEFFREYS-14 STeps To Harlem (2017)
RECENSIONE: JOHN MELLENCAMP- Sad Clowns & Hillbillies (2017)
RECENSIONE: TAJ MAHAL & KEB' MO'-TajMo (2017)
RECENSIONE: CHRIS STAPLETON: From A Room, Volume I and II (2017)
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giovedì 21 dicembre 2017

RECENSIONE: ROBERT FINLEY (Goin' Platinum!)

ROBERT FINLEY  Goin' Platinum (Easy Eye Sound/ Nonesuch, 2017)
 
 
 
 
 
 
non è mai troppo tardi
A volte abbiamo bisogno delle favole per andare avanti e credere ancora in qualcosa. La musica non è esente, se ben setacciata, anzi, ne è fucina inesauribile. La storia di ROBERT FINLEY non è che una delle ultime favole a lieto fine infarcita di verità e leggende, ricordando da vicino quella di Seasick Steve: un giovane della Louisiana, che a diciannove anni nel 1974 lascia i campi di cotone a Bernice e si arruola nell’esercito americano, unico modo sicuro per poter aiutare economicamente la madre. Con l’esercito arriva in una base americana in Germania e proprio in Europa, in mezzo al dovere (chiamiamolo così) ha modo di sviluppare la sua grande passione per la musica con la band dell’esercito: cresciuto a pane e gospel (a undici anni si comprò la prima chitarra con i soldi che il padre gli diede per un nuovo paio di scarpe), con James Brown, B.B. King e i Temptations in testa. Tornato in Usa dopo il duro lavoro da carpentiere capisce che la sua vera strada è la musica. La strada è però dura e in salita. Fino a due anni fa girava vie secondarie e piccoli locali mentre ora a 64 anni si trova a registrare un disco insieme a Gene Chrisman (Elvis Presley band) e a mostri sacri come Duane Eddy (suo il solo di chitarra in 'You Don't Have To Do Right'), Bobby Woods e la Preservation Hall. Arriva alla musica che conta con GOIN’ PLATINUM! (dopo l’esordio Age Don't Mean a Thing del 2016), il primo disco a uscire per la nuova etichetta di Dan Auberbach, Easy Eye Sound. Già è proprio “prezzemolo” Auberbach a prendere questo vecchio bluesman sotto la sua ala protettrice, invitarlo nel suo mondo, lo stesso che gravitava intorno al suo ultimo album solista (le canzoni sono scritte da lui, John Prine, Nick Love, Pat McLaughlin) e a fargli fare il grande salto. “Ho capito le capacità di Robert di andare oltre le canzoni blues. È un grande chitarrista blues, ma se posa la chitarra e si mette davanti ad una orchestra può diventare come Ray Charles.” Così lo presenta Aurbach. Black Keys meets blues singer, quello che ne esce è un magnetico incrocio tra R&B, swamp blues ('Three Jumpers') retro soul di casa Nashville e il suo è nome Robert Finley (provate il suo falsetto in 'Holy Wine'). Lui è un personaggio, il disco senza un’età apparente è da ascoltare per la varietà stilistiche con cui è stato assemblato. L’ultimo colpo di questo 2017.
 
 
 
 

lunedì 18 dicembre 2017

RECENSIONE: BOB SEGER (I Knew You When)


BOB SEGER  I Knew You When (Capitol Records, 2017)


Dico la verità, quando in Ottobre si sparse la notizia della sospensione del tour americano di Bob Seger, per un attimo ho temuto il peggio, sembrava la ripetizione di una notizia già letta troppe volte: un disco in uscita già programmato e le rockstar che ci saluta in anticipo. Fortunatamente Seger è ancora qui con noi e i problemi alle vertebre non sembrano così gravi come si pensava.
Strano disco questo I KNEW YOU WHEN. Di chiara matrice rock e lo si capisce subito dalla partenza southern ‘Gracile’, certamente più del precedente RIDE OUT che si perdeva sovente tra le vie country di Nashville. Pur con una tracklist raffazzonata che raccoglie dal passato recuperando vecchi scarti, con due cover (‘Busload Of Faith’ di Lou Reed e ‘Democracy’ di Leonard Cohen) riviste e attualizzate nei testi (un deciso attacco a Trump) e con una produzione così e così opera dello stesso Seger, e qui un buon produttore sarebbe servito- i synth di ‘The Highway’ e i muscoli di ‘Runaway Train’ rimandano direttamente agli ’80, quelli invecchiati male e ti chiedi perché?-si fa comunque voler bene per l’onestà. ‘I Knew You When’, ‘Marie’, il pianoforte più il crescendo di ‘I’ll Remember You’ lo riportano sulle epiche strade delle sue irraggiungibili ballate del passato, e ripeto irraggiungibili per intensità che girava nei settanta. ‘Sea Inside’ è un hard rock che lo stesso Seger ha dichiarato essere nata sulla scia dei Led Zeppelin. Seger guarda alla gioventù in copertina, vive il presente nei testi e si tuffa nella malinconica nostalgia con la finale ‘Glenn Song’ dedicata, come tutto il disco, all’amico Glenn Frey, compagno d’avventura fin dal lontano ‘66 lungo la scalpitante Detroit musicale di allora. Certamente non uno dei suoi migliori dischi (l'ultimo rimane il buonissimo FACE THE PROMISE del 2006), anzi, ma un segno di vitalità non da poco vista l'età e i già citati problemi fisici, speriamo veramente superati. A metà carriera, un disco del genere sarebbe stato definito “di passaggio". A voi le conclusioni.


 

 
 

venerdì 8 dicembre 2017

RECENSIONE: SUPERDOWNHOME (Twenty-Four Days)

SUPERDOWNHOME   Twenty-Four Days (Slang/Warner 2017)



Quando vedo le classifiche dei migliori dischi dell’anno già a fine Novembre un po' mi incazzo, non che sia così importante, i dischi non hanno scadenze, ma... Il perché ce l'ho sotto gli occhi e dentro le orecchie in questo momento, anche se per ora solo in formato digitale. Già: TWENTY- FOUR DAYS, il primo disco completo dei bresciani SUPERDOWNHOME uscirà solo il 25 Dicembre (presentazione ufficiale alla Latteria Molloy di Brescia proprio il giorno di Natale) e si preannuncia come una piccola bomba con deflagrazione lunga poco più di trenta minuti, pochi ma abbastanza per far scattare un applauso da Natale in avanti. E credo che il 2018 sarà un anno importante per loro. A inizio anno, qui siamo ancora nel 2017 però, il duo formato dagli esperti musicisti Beppe Facchetti (cassa e rullante) e Henry Sauda (chitarre, cigar box, Diddley bow e voce) si era presentato al grande pubblico con l’ep che metteva in bella mostra l’approccio al blues, tradizionale ma personale, a cui potete aggiungere un “rural” se volete seguire il suggerimento, grezzo e genuino nato sulle orme di one man band come il vecchio Seasick Steve e quel pazzo di Scott H Biram: blues ridotto all’osso nella forma, nella sostanza, nella strumentazione. In mezzo tra ep e lp (mi piace chiamarlo così, chissà se uscirà anche in versione vinile?): tanti concerti e importanti festival (Narcao, Soiano, Sound Tracks) e incontri che si trasformeranno in spontanee collaborazioni come vedremo. TWENTY-FOUR DAYS, registrato nuovamente al Bluefemme Studio insieme a Marco Franzoni e Ronnie Amighetti (affiatata squadra vincente non si cambia) mantiene fede a quell’ approccio primitivo ma aggiunge mille altre sfumature di abbellimento. Dall’assalto proto punk incendiario e rivoluzionario di ‘Kick Out The Jams’ degli Mc5, una delle tre cover presenti, le altre sono ‘Stop Breaking Down Blues’ del padre Robert Johnson e lo schiaffo al razzismo ‘Down In Mississippi’ di J.B. Lenoir (ripresa da tantissimi ma mi piace ricordare la bella versione di Mavis Staples) alle numerose sfumature dei sette brani originali che si allungano sul rock'n'roll, il folk e il country (‘Goodbye Girl’) ma quello che più stupisce è l’elevato potenziale (anche commerciale perché no?) di ogni singolo brano. Come rimanere fermi davanti al contagioso chorus di ‘Long Time Blues’, e proprio qui incontriamo il grande ospite del disco, il mastodontico chitarrista newyorchese Popa Chubby che piazza il suo cattivo assolo di chitarra (lo ritroviamo anche nella cover di Robert Johnson), davanti alla viziosa ‘Over You’, alla zztopiana ‘Disabuse Boogie', nell’oscuro incedere della più stratificata title track. Natale è vicino. Fatevi un regalo.




SUPERDOWNHOME-Superdownhome (Roam, 2017)

Un contrasto vincente! Non lasciatevi ingannare troppo dalla copertina che li ritrae seduti, elegantemente vestiti, su due poltrone Chesterfield. E non dovrete farvi ingannare nemmeno da come si presentano in concerto: esattamente così. A cambiare sono solo le poltrone vintage, sostituite da due poveri sgabelli. Dal lato blu notte esce la figura di Enrico Sauda, seduto alle prese con le sue chitarre (cigar box artigianali comprese), dal lato rosso carminio Beppe Facchetti, seduto dietro a cassa e rullante. Il minimo indispensabile. Il contrasto qual è allora? La musica. Perché proprio di sottrazione vivono le loro canzoni. I due esperti musicisti bresciani sono in giro da circa due anni sotto il nome Superdownhome, ma solo ora sembrano aver trovato la strada vincente, e ce la mostrano con questo primo ep prodotto da Marco Franzoni e Ronnie Amighetti (preludio a qualcosa di più sostanzioso, si spera) composto da cinque brani: quattro autografi e la cover di ‘Shake Your Money Maker’ di Elmore James. Sauda e Facchetti hanno trovato nel rock blues viscerale, terroso, innaffiato da buone dosi di alcol, e molto vicino a personaggi come Seasick Steve e Scott H. Biram (giustamente omaggiati durante i live), ma anche i Black Keys, il loro punto in comune. Basterebbe l’ascolto della riuscitissima ‘Can’t Sweep Away’ a fugare ogni dubbio, con il bellissimo video compreso. Enrico Sauda è un dotatissimo chitarrista dall’animo rock blues, con un alcuni dischi solisti alle spalle, attualmente in vista con la band The Scotch, ammirata recentemente in apertura a Alejandro Escovedo a Chiari; Beppe Facchetti ha un curriculum vitae lunghissimo (che potrete cercarvi nel web) per cui mi limito a citare il suo prezioso lavoro con The Union Freego e Slick Steve And The Gangsters. Two men band, a volte è meglio di one.

http://enzocurelli.blogspot.it/2017/04/recensione-superdownhome-superdownhome.html








mercoledì 6 dicembre 2017

RECENSIONE: CHRIS STAPLETON (From A Room, Volume I & Volume II)

CHRIS STAPLETON    From A Room, Volume I & Volume II (Mercury Nashville/ Universal 2017)




“Il luogo dove registri può influenzare, nel mio caso anche elevare, quello che fai”. Con queste parole CHRIS STAPLETON, 38 anni, sintetizza il titolo scelto per l’ambizioso progetto musicale di questo 2017. Il 5 Maggio erano uscite le prime nove canzoni raccolte sotto il titolo: FROM A ROOM, VOLUME I. Il primo Dicembre è arrivato il VOLUME II. Chris Stapleton ha registrato il seguito del fortunato debutto TRAVELLER, negli stessi studi di Nashville dove registrarono i suoi grandi idoli: Waylon Jennings, Willie Nelson, Elvis Presley. Mura piene di storia che un paio d’ anni fa furono salvate dal triste destino a cui stavano andando incontro: la demolizione. Scongiurata la wrecking ball rimane la magia. Prodotti entrambi dal fido Dave Cobb, che ci suona anche la chitarra acustica, Stapleton cerca di bissare il grande successo di un debutto nato sulle highway, durante un lungo viaggio con la moglie in cui cercò di recuperare sia il meglio di se stesso, dopo alcune delusioni di vita, che le sue aspirazioni e esperienze musicali, comprese le parentesi con i suoi vecchi gruppi, e le tante canzoni scritte per altri come autore. Con lui in studio: la moglie Morgane Stapleton ai cori, il batterista Derek Mixon, il basso di J.T. Cure e le ospitate di Mickey Raphael all’ armonica, Robby Turner alla pedal steel e le tastiere di Mike Webb.
VOLUME I ripete bene la formula, bilanciando le varie anime della sua musica anche se a prevalere, come già anticipato dal debutto, è sempre quella più soul e nera grazie soprattutto alla sua straordinaria voce: ‘I Was Wrong’, l’incidere soffuso e notturno della finale ‘Death Row’, la splendida ‘Either Way’ che insieme a ‘Last Thing I Needed , First Thing This Morning’ (rubata a Willie Nelson) sono il punto più alto del disco e sembrano uscite da impolverati dischi motown abbandonati su una vecchia diligenza guidata da vecchi cowboy e persa tra le strade del Texas. Come se Otis Redding camminasse, senza fretta, sotto braccio a Waylon Jennings. Outlaw soul. Maggiore omogeneità rispetto al debutto, spezzata solamente da un lento walzerone country dominato dalla lap steel (‘Up To No Good Livin’’), un vecchio blues con l’armonica (‘Them Stems’), e l’incalzante rock di ‘Second One To Know’, il momento più elettrico e movimentato del disco. Il perché i sessanta minuti di musica siano stati divisi in due parti non si sa bene, perché anche il VOLUME II batte le stesse strade. E non è per nulla un male. Due le cover: l’apertura ‘Millionaire’, un country rock di Kevin Welch e la finale ‘Friendship’ di Pope Staples. In mezzo c’è ancora la sua straordinaria voce che si esalta e emoziona nei momenti più marcatamente soul come la stessa ‘Friendship’, in ‘Nobody’s Lonely Tonight’ e ‘Tryin’ To Untagle My Mind’, un country soul dal passo pigro e un bel lavoro di chitarre dietro. Ci sono galoppanti honky tonk alcolici il giusto (‘Hard Livin’’), chitarre che graffiano in profondità nello stomp rock di ‘Midnight To Memphis’, l’episodio più marcatamente rock di questa seconda uscita, e ballate dal fiero accento americano come ‘A Simple Song’ e ‘Drunkard’s Prayer’ o l’atsmosfera di frontiera tra polvere e cielo che si respira nella bella ‘Scarecrow In The Garden’.
Chris Stapleton si conferma uno degli ultimi depositari di una vecchia formula che tra gli anni sessanta e i settanta cercò di riscrivere la musica americana. Anche se un punto inferiore al debutto, che poteva giocarsi la carta sorpresa, rimane pur sempre due punti superiore per spessore e intensità alla media delle uscite odierne nel suo campo. Una delle migliori uscite discografiche americane di quest’anno. Il buon Stapleton è un songwriter di talento e con questa ambiziosa opera si assicura un posto lì, immediatamente dietro i grandi vecchi.



venerdì 1 dicembre 2017

THE FOUR HORSEMEN ( cantavano: "Rockin' is my business - business is good", mica vero. Una storia molto rock'n'roll)

THE FOUR HORSEMEN ( cantavano: "Rockin' is my business - business is good", mica vero. Una storia molto rock'n'roll)




1986: Stephen “Haggis” Harris (o Kid Chaos, scegliete voi) sta suonando il basso nel tour dei The Cult, dopo aver militato in svariate formazioni tra cui quella di Zodiac Mindwarp. La band di Ian Astbury e Billy Duffy è al top della fama, è appena uscito ELECTRIC, nel 1989 pubblicherà SONIC TEMPLE. Solo un pazzo lascerebbe una band del genere in quel momento. Ecco, quel fuori di testa è proprio Haggis. Al gallese emigrato a Los Angeles in cerca di fortuna, il ruolo di semplice comprimario va stretto, vuole una band tutta sua. "Senza di me stanno sicuramente meglio, almeno dal punto di vista finanziario, visto che non c'è più nessuno che sfascia lo stage ad ogni spettacolo" dirà della sua fuoriuscita dai The Cult. In soccorso arriva Rick Rubin, il re mida dei produttori, (produttore di Electric) che gli presenta un poco raccomandabile cantante italo americano, il suo nome è Frank C. Starr, il suo idolo è Bon Scott e ha la fama di attaccabrighe. Si narra che al primo incontro Starr si presentò con le mani sporche di sangue: si azzuffò fuori dallo studio di registrazione per trovare parcheggio (altre leggende dicono che pure Axl Rose uscì malconcio da una scazzottata con lui).
A completare la formazione: un tal Ken Montgomery, sopranominato “Dimwit” e fratello di Chuck Biscuits, batterista di Danzig ("aveva capelli unti, pochi denti e un osceno tattoo dei Black Sabbath su un braccio. Gli ho chiesto 'suoni?' e lui ha risposto: 'Sì, le pentole’” racconta Haggis in una vecchia intervista); alla seconda chitarra Dave Lizmi, fino ad allora conosciuto più alle famiglie a cui consegnava le pizze a domicilio; al basso Ben Pape ex Scream, band da cui uscì Dave Grohl prima di entrare nei Nirvana.
THE FOUR HORSEMEN è anche il titolo del primo EP, formato da sole quattro canzoni: ‘Welfare Boogie’, ‘Shelly’, ‘Highschool Rock n Roller’, Hard Lovin’ Man’. Nulla di originale, tanto che gli stessi membri del gruppo non nascosero le varie influenze, i ganci e i rimandi presenti (AC/DC e Status Quo su tutti). Ma se nel rock conta anche l’attitudine, i THE FOUR HORSEMEN ne avevano da vendere: il loro sporco southern rock sposava i riff hard blues degli AC/DC (“eravamo dei grossi fan degli AC/DC”), si invaghiva del polveroso boogie alla ZZ Top e flirtava appassionatamente con lo stile di vita “sex, drugs and rock’n’roll”. Insomma ce la mettevano tutta per essere irriverenti, sfrontati ma fottutamente veri, e la cosa riusciva loro molto bene.
"Siamo punk nello spirito, non nel tipo di musica. Gli anni settanta sono stati veramente grandi, mi piace sperare che possano tornare" Haggis. Una carriera che sembra prendere il volo con la registrazione del primo album NOBODY SAID IT WAS EASY (1991) trainato ironicamente dal manifesto ‘Rockin’ Is Ma’ Business’ (che poi il business andasse bene era tutta un’altra storia, ma poco importa), ‘Tired Wings’, ‘Wanted Man’(una sorta di autobiografia del cantante Frank Starr) e l’atipica ‘Moonshine’ con la voce di Starr registrata via telefono.
“La mie giornate sono intense (riparo auto, corro sui dragster, giro in moto e gioco a biliardo) e mi rifiuto di pianificarle attorno alla registrazione di un album. Mi avevano detto che avevo finito e io me ne sono tornato a casa. La canzone gliel’ho cantata al telefono.” Un album registrato in due settimane con Rick Rubin come produttore anche se “Rick non ha avuto alcun input nel disco, ci abbiamo messo talmente poco che non gli sarebbe stato possibile”. In mezzo ci sono importanti tour insieme a leggende come i Lynyrd Skynyrd e gli allora ancora poco conosciuti Black Crowes. “Non abbiamo smesso un momento dall’agosto 1991. 8 settimane con i Black Crowes, 7 con i Lynyrd Skynyrd, 4 con Joan Jett e 6 da soli. Lavoriamo sempre. Con i Lynyrd Skynyrd ci siamo veramente divertiti e, pare che l’apprezzamento sia stato reciproco”.
Oltre ad avere attitudine da vendere, i The Four Horsemen vendettero anche l’anima al diavolo. Dopo il primo disco, nel 1994, il batterista Dimwit morì per overdose, mentre il cantante Starr lasciò questa terra dopo un incidente motociclistico con i conseguenti anni di coma (tanti) nel 1999. La classica (anti) rockstar vittima dei suoi eccessi.
Intanto, tra una uscita di galera e l’altra di Starr, nel 1996 era uscito il secondo disco GETTIN’ PRETTY GOOD AT BARELY GETTIN’ BY (1996) dagli umori sudisti più marcati che aveva nella cover ‘Still Alive And Well’ di Rick Derringer e Johnny Winter il punto di forza. In mezzo: DAYLIGHT AGAIN, disco perduto con i soli Haggis e Lizmi al timone, registrato nel 1994 e rimesso in commercio solo nel 2009. Tutto molto rock’n’roll! Tutto troppo breve...