martedì 28 novembre 2017

RECENSIONE: NEIL YOUNG + THE PROMISE OF THE REAL (The Visitor)

NEIL YOUNG + THE PROMISE OF THE REAL  The Visitor (Reprise Records, 2017)






Dopo l’uscita di HITCHHIKER, l’anno di Neil Young poteva finire lì e saremmo stati tutti contenti. Facile direte voi: il Neil Young di quarant'anni fa vince sempre e porta a casa la partita. Invece no, ecco ricomparire la sua bulimica dose di canzoni che divideranno ancora una volta critici e fan. Più i primi come sempre. Chi lo stroncherà e chi gli darà nuovamente del genio. Confessiamolo: c'è sempre un sorta di timore davanti a un nuovo disco di Neil Young, eppure a differenza di tanti suoi coetanei riesce sempre a stupire, nel bene come nel male. PEACE TRAIL, uscito l’anno scorso aveva un'anima ben precisa, una traccia da seguire sulle orme dei nativi americani. Un grande album per me, forse capito poco.
THE VISITOR, il secondo, oltre all'atipico live EARTH, insieme ai Promise Of The Real  di Lukas Nelson e compagni (il fratello Micah, Corey McCormick, Anthony Logerfo e Tato Melgar: bello il loro disco di quest’anno) è molto più vario musicalmente mentre concettualmente poggia sulle riflessioni di un canadese davanti al paese (gli Stati Uniti) che lo ospita da più di mezzo secolo: un atto d'amore che in tempi di esodi di massa può far riflettere. Se da una parte le invettive (la risposta a Donald Trump nel southern rock di ‘Already Great’ dove gliele canta senza paura, sfidandolo e sognando un mondo senza: "No wall, no hate, no fascist U.S.A"canta) e gli slogan ripetuti all’infinito dell'ambientalista ‘Stand Tall’ sembrano riallacciarsi al mood di THE MONSANTO YEARS-sono anche le tracce più rock del disco-l'inno patriottico ‘Children Of Destiny’ che avanza stancamente in modo tronfio tra fiati, chitarre e orchestrazioni (i 56 elementi del Capitol Studios), ‘Diggin’ A Hole’, un blues corale, ma innocuo e un poco noioso nel suo incedere, e ‘When Bad Got Good’ un riempitivo inutile, dall'altra parte ci sono almeno quattro canzoni che fanno alzare notevolmente le quotazioni, questo quando Young osa e dimostra di sapersi ancora divertire con la musica.

‘Fly By Night Deal’ è un pezzo dal ritmo funk con il testo narrato e parlato, fresco e divertente, ‘Almost Always’ è una classica ballata chitarra e armonica in cui ricicla se stesso per la millesima volta (tra Harvest e Harvest Moon per intenderci, ma più il secondo), ma in fondo Neil Young che fa Neil Young è sempre un piacere sentirlo, mentre a sorprendere di più è l’altro pezzo acustico ‘Change Of Heart’, oscuro e notturno con un fischiettio come linea guida. I pezzi forti sono i più lunghi: la finale e melanconica ‘Forever’ ("il mondo è come una chiesa senza il prete" è la chiosa), dieci minuti che risvegliano antichi sapori ’70 e soprattutto ‘Carnival’, un Neil Young inedito e mai sentito prima che lungo gli otto minuti di durata ne combina di tutti i colori aggirandosi beffardo come un pazzo tra la sabbia del deserto, un luna park e il tendone di un circo, dove veste i panni di Carlos Santana a Woodstock, fa il verso a Dr. John tra percussioni latineggianti e rallentamenti a ritmo di valzer, e il tutto è molto psichedelico e sembra datato 1969. Sorprendente davvero. In retrospettiva il pezzo per cui The Visitor verrà ricordato in futuro.
Cosa dire? Ormai ad ogni uscita discografica io dico solo: questo è Neil Young, prendere o lasciare.
" Diretto verso il sole, ero grato di essere vivo e sulla strada di casa", così Neil Young chiude il suo libro Special Deluxe e così lo immagino ancora una volta: un uomo vivo (come chiamereste voi, un uomo con così tante idee?), con lo sguardo proiettato sempre in avanti (come spieghereste voi, un uomo così impegnato e fortemente convinto delle sue battaglie?) e nonostante tutto rassicurante come la strada più conosciuta, quella che ci porta verso casa.
★★★ 1/2 (5)



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