lunedì 29 agosto 2016

RECENSIONE:JAKE BUGG (On My One)

JAKE BUGG   On My One (Mercury, 2016)




Ottobre 2012, mi trovo a Dublino davanti alla vetrina di un grande Record Store: è tappezzata da tanti cd tutti uguali, in copertina campeggia il viso sbarbato e imbronciato di un ragazzo che pare appena uscito dall’ età adolescenziale. Assomiglia a Justin Bieber, ma lo conosco di nome e so che la sua musica è molto lontana dall’idolo pop delle teenager. Torno in Italia con il suo debutto in valigia che presto passa nell’impianto stereo: voce giovane ma nasale e musica elettro acustica che costruisce i ponti ideali tra il folk americano orbitante nei Coffee House di Minneapolis frequentati dal giovane Bob Dylan e il folk britannico di Donovan con gli antichi guizzi r’n’r di Buddy Holly e le melodie brit pop degli Oasis. Sarà proprio Noel Gallagher a tesserne pubblicamente le lodi e portarselo in tour. L’idilio tra i due finì quando Gallagher scoprì che Bugg collaborò con due co-autori per la stesura di alcuni pezzi. Stranezze del Rock. Il debutto arriva a vendere 450.000 copie solo in UK, e non passa un anno che l’etichetta discografica decide di investire tutto sul giovane proveniente dall’operaia Nottingham: lo spedisce a Malibu, in California, sotto le mani esperte di Rick Rubin che mette a disposizione musicisti amici tra cui Chad Smith (Red Hot Chili Peppers). “Mi sembrò la cosa giusta da fare. Meglio battere il ferro finché è caldo, no? In quel periodo che ho passato in tour e a viaggiare per il mondo ho avuto nuove esperienze e opportunità. Perché non scriverne?”. In ‘Shangri La’ l’aria si fa meno nebbiosamente brit ma più polverosamente yankee, con alcune possenti puntate punk rock. Rubin smussa l'ingenua urgenza esecutiva dell'esordio, arricchendo le canzoni di sfumature ma complicando ulteriormente la vita a chi cerca di inquadrarlo. Devono però passare tre anni per ritrovare nuovamente Jake Bugg in studio con il nuovo ‘On My One’. Il ragazzo in questo 2016 ha solo ventidue anni ma ha deciso che è il momento di camminare da solo: "Questo titolo riassume per molti versi l’essenza del disco, soprattutto perché l’ho fatto per conto mio. L’ho visto come il passo logico successivo nel mio sviluppo come compositore”.
E’ più il personale e autobiografico dei tre dischi incisi, per le liriche (nella title track canta dei tre anni passati in tour e dei 400 concerti) e perché si cimenta per la prima volta anche come produttore, aggiungendo degli spiazzanti retaggi elettro Hip Hop al già ricco recente passato. Succede così che dalla west coast in stile America di ‘The Love We’re Hoping For’ alle rime rappate alla Beastie Boys di ‘Ain’t No Rhyme’ il passo è breve. "Che si tratti di soul o di hip hop, tutto deriva dal blues. Per me il blues significa solo cantare le proprie emozioni o esprimere il proprio dolore in modo che gli altri possano sentire ciò che provi. Questa è la bellezza della musica. È un esercizio di equilibrio difficile, fare cose nuove senza spaventare quelli a cui piacevano le cose vecchie”. Il ragazzo ha personalità e faccia tosta da vendere (Enzo Curelli). da CLASSIX! #48 (Agosto/Settembre 2016)





RECENSIONE: JAKE BUGG-Jake Bugg (2012)
RECENSIONE: JAKE BUGG-Shangri La (2013)

lunedì 8 agosto 2016

RECENSIONE: DAVID CORLEY (Lights Out)

DAVID CORLEY  Lights Out (Continental Record Services/IRD, 2016)





Che strana la vita! Quel cuore che vedete in questa copertina, con relativo elettrocardiogramma, ha rischiato di fermarsi per sempre e voleva farlo (malandrino) mentre stava facendo una delle cose più belle imparate in vita: cantare. Anche i cuori cantano, sapete? Abbiamo visto DAVID CORLEY al Buscadero Day nel Luglio 2015, il suo debutto discografico AVAILABLE LIGHT è stato, a ragione, uno dei più osannati dell’anno scorso. Un disco arrivato tardi, a 53 anni, ma proprio per questo: carico di storie e speranze, vero e sincero, un sogno che si era avverato. Mai perdere la speranza. CORLEY e il suo cuore non l’hanno persa nemmeno quando quest’ultimo, due mesi dopo quel debutto in terra italiana, ha deciso di salutarci momentaneamente per otto interminabili minuti mentre il cantautore dell'indiana presentava l’ultima canzone in scaletta durante un concerto a Groningen in Olanda. Un attacco cardiaco che l’ha tenuto fermo per molti mesi, proprio quando si stava godendo i meritati riconoscimenti. Ma il tutto è stato solo rimandato. Garantito.
 LIGHTS OUT è un disco, chiamatelo anche EP, ma le canzoni sono 7 e la durata supera la mezz’ora, perfino superiore al debutto. Qui la personalità esce prepotente. Più di prima. Sette canzoni urgenti che la sua voce cruda e scura (figlia bastarda di Lou Reed e…io ci vedo Alejandro Escovedo) conduce in sentieri polverosi cari al folk blues parlato tra Dylan e Calvin Russell (la stupenda ‘Blind Man’), alle ballate sporcate di soul (‘Watchin’ The Sun Go’, ‘Under A Midwestern Sky’) e gospel (‘Pullin’ Off The Wool’, 'Down With The Universe’), e al garage rock urbano quando la band che lo accompagna, i BJ’S WILD VERBAND , alza il volume delle chitarre (‘Lightning Downtown’,’The Dividing Line’). Quanta intensità in questa nuova vita. L’elettrocardiogramma ha ripreso a galoppare…chi lo ferma più?

RECENSIONE: LUCINDA WILLIAMS-The Ghosts Of Highway 20 (2016)
RECENSIONE: PARKER MILLSAP-The Very Last Day (2016)
THE WHITE BUFFALO. Per la prima volta in Italia. Due date: 28 Luglio a Ravenna, 30 Luglio a Brescia
RECENSIONE: WILLIE NILE-World War Willie (2016)
RECENSIONE: ZAKK WYLDE-Book Of Shadows II (2016)
RECENSIONE: HAYES CARLL-Lovers And leavers (2016)
RECENSIONE: STURGILL SIMPSON-A Sailor’s Guide To Earth (2016)
RECENSIONE: MALCOLM HOLCOMBE-Another Black Hole (2016)
RECENSIONE: JOHN DOE-The Westerner (2016)
RECENSIONE: TOM GILLAM &THE KOZMIC MESSENGERS-Beautiful  Dream (2016)
RECENSIONE: MATT ANDERSEN-Honest Man (2016)
RECENSIONE: TONY JOE WHITE-Rain Crow (2016)
REPORT LIVE: GRAHAM NASH live@Teatro Sociale COMO, 3 Giugno 2016


mercoledì 3 agosto 2016

RECENSIONE: CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD (Anyway You Love, We Know You Feel)

THE CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD   Anyway You Love, We Know You Feel (Silver Arrow Records, 2016)



Tempo di nuovi inizi per la confraternita. Ma non temete, l'approccio alla musica rimane lo stesso con cui fecero nascere il progetto e i cambiamenti mantengono, in qualche modo, fede al nome scelto. Chris Robinson al centro a fare da gran cerimoniere, la chitarra di Neal Casal al fianco e tutto il resto intorno a girare, in gran libertà, come sempre: si perdono per strada il bassista Mark Dutton e il batterista George Sluppick, sostituiti da Tony Leone, già batterista di Levon Helm e dall'ospite Ted Pecchio su disco, ma sembra che il bassista ufficiale diventerà Jeff Hill. Musicalmente questo quarto capitolo, il primo autoprodotto dal gruppo, segue la leggera fluidità del precedente PHOSPHORESCENT HARVEST, pochi veri affondi rock, ad esclusione di 'Leave My Guitar Alone', un trascinante boogie che girava nella testa di Robinson da una quindicina d'anni e con un Neal Casal scatenato, e sempre maggior spazio alle tastiere di Adam McDougall quindi ('Oak Apple Day') e il recente tour italiano l'ha fatto capire chiaramente, ma con qualche accento più marcato posto sulla black music come testimoniano due episodi come l'apertura 'Narcissus Soaking Wet' un perfetto e riuscitissimo amalgama tra Stevie Wonder, R&B e il funk di casa Parliament con la presenza dell'armonica e i cori gospel (opera di Meg Baird) nella ipnotica e miglior canzone del disco 'Forever As The Moon', e la finale 'California Hymn' carica di soul come testimoniano i suoi versi: "Glory glory hallelujah, It’s time to spread the news. Though my good words may sound profane to some.".
Le registrazioni del disco avvenute in uno studio posizionato sulle colline californiane con le ampie finestre rivolte verso l'Oceano Pacifico hanno dato la giusta ispirazione per queste otto canzoni nate sul momento, tanto che Chris Robinson l'ha definita la migliore esperienza di registrazione della sua vita. Gli crediamo?
"E ' stato molto stimolante. Abbiamo registrato il disco in una casa con una grande finestra con vista sulla collina e nel Pacifico. Un ambiente molto confortevole e tranquillo, senza distrazioni. C'era qualcosa di energico su quella collina che stimolava la creatività. E una volta arrivati all'interno, il taccuino di Chris si è aperto, hanno iniziato a fluire le parole e le canzoni si sono scritte da sole" Così racconta Neal Casal a Guitarworld.com 
Nessun calcolo, tanto che nessuno sapeva la direzione che avrebbero preso le canzoni: come sempre cariche di magnetismo, di viaggi interspaziali (la strumentale ' Give Us Back Our Eleven Days'), di devozione verso i '60 e '70 di The Band e Grateful Dead ('Ain't It Hard But Fair'), di placide camminate bucoliche ('Some gardens Green') vicine all'ultimissima produzione roots targata Black Crowes .
Come ben rappresenta un disegno del libretto, opera di Alan Forbes, la confraternita viaggia lassù in alto, tra le stelle, sopra ad una navicella spaziale, lontana da ogni tentazione terrena. Acciuffatela voi, ancora una volta. Ne vale la pena.




CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD-Phosphorescent Harvest (2014)
CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD-The Magic Door (2012)
CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD-Big Moon Ritual (2012)