giovedì 24 settembre 2015

RECENSIONE: KEITH RICHARDS (Crosseyed Heart)

KEITH RICHARDS Crosseyed Heart (Virgin, 2015)





Perdoniamogli tutte le cazzate che ha sparato ultimamente: se per lui Sgt.Peppers è spazzatura, voglio fare il netturbino a Roma e spararmelo in cuffia alle cinque di una domenica mattina tra cartacce, pisciate e cocci di bottiglia, se i Black Sabbath sono uno scherzo, voglio essere un mago e tirare fuori Ozzy e Iommi da un cilindro e giocarci tutto il giorno nel soggiorno di casa. Taci Keith. Suona la chitarra e canta con quella vociaccia che ti ritrovi che non sarà quella di Jagger ma penetra tre volte in più, giù in profondità. Perché sto vecchio figlio di buona donna tira fuori un disco di rock’n’roll quasi perfetto (il quasi si toglie solo per i capolavori), sporco il giusto, di quello sporco che gli ultimi Rolling Stones puliscono troppo spesso con colpi di straccio a casaccio. Quali siano gli ultimi Rolling Stones non lo so ancora: dovevano essere quelli degli anni ‘80, poi sono arrivati i ’90, oggi è il 18 Settembre del 2015.
Keith è aiutato dagli X-Pensive Winos appena lì dietro e da Steve Jordan, produttore e batterista. L’intro acustica Crosseyed Heart è l’adunata dei vecchi fantasmi del Delta, spoglia, solitaria, quasi si stesse esercitando prima di un concerto, il blues battente e torbido in Blues In The Morning sembra arrivare pure lui da epoche lontane e remote (anche le sue in definitiva), Nothing On Me è il suo credo quasi fosse la sua brillante ed epocale autobiografia Life, il rock di Heartstopper e di Trouble è tutto quello che vorremmo sempre sentire dagli Stones. Ancora un volta. Anche il vecchio amore per il reggae è sempre presente in  Love Overdue di Gregory Isaacs. Il blues sbilenco e schizzato di Substantial Damage pare invece uscito da un disco dell’amico Tom Waits. A proposito: lo standard  Goodnight Irene viene bene pure a Keith.

Quando poi fa il confidenziale, anche spesso e volentieri, ti accarezza prima e dopo ti scortica alle spalle (la ballata Robben Blind e nell’avventata  Illusion con Norah Jones). Sul R&B di Amnesia ricompare, magicamente, anche il sax di Bobby Keys, scomparso quasi un anno fa. Magie di Keith. Potrebbe anche essere il suo terzo e ultimo disco solista visto tempistiche e carta d’identità. Quindi: un testamento anticipato, da leggere e rileggere. All'infinito. Una lezione da imparare. “Guardo alla vita come se fosse 6 corde e 12 tasti. Se non riesco a immaginare tutto quanto c’è lì dentro, come posso immaginare qualsiasi altra cosa?” K.R.
Per ora, non si è rotta ancora nessuna di quelle vecchie e impolverate sei corde (che naturalmente per Keith sono cinque).


RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (2015)
RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Love And The Death Of Damnation (2015)
RECENSIONE: LANCE CANALES-The Blessing And The Curse (2015)




lunedì 21 settembre 2015

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #4: EDDIE HINTON (Very Extremely Dangerous)

EDDIE HINTON Very Extremely Dangerous (Capricorn,1978)





Disco di una categoria superiore. Eddie Hinton fu tanto forte con la sua voce nera-il tag “l’Otis Redding bianco” campeggia ovunque, meritatamente ma anche ingabbiante-quanto debole nell’affrontare i problemi incontrati lungo la breve strada della sua esistenza. Very Extremily Dangerous fu il debutto solista che arrivò nel 1978 dopo anni dedicati come session man per i più grandi: Aretha Franklin, Joe Tex, Solomon Burke, Boz Scaggs, Percy Sledge, Wilson Pickett, Otis Redding, The Staple Singers, Johnny Taylor, Elvis Presley, The Box Tops, Evie Sands,Toots Hibbert e tantissimi altri si sono serviti della sua chitarra, delle sue canzoni, del suo talento.
‘Very Extrenely Dangerous’ è una bomba di intensità southern soul (copertina inclusa), registrato ai Muscle Shoals, che dovrebbe esplodere nelle case di tutti, nessuno escluso.
Paradossalmente il più grande successo fu anche la sua rovina: la mitica etichetta Capricorn chiuse i battenti proprio dopo questo disco e la vita di Eddie, destinata a migliorare, iniziò invece a sprofondare negli abissi poco sani della depressione a cui andò ad aggiungersi una vita famigliare tormentata e poco stabile. Il resto della carriera fu un’altalena con bassi (di vita) e alti (musicali) tra cui spicca ancora Letters From Mississippi del 1985.
La morte arrivò prestissimo nel 1995 a soli 51 anni. Un infarto rapì il suo debole cuore, troppo sensibile e blues per questo mondo irrispettoso.

DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA # 1: FRANCESCO DE GREGORI- Titanic (1982)
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #2: THE HOUSEMARTINS-London 0 Hull 4
DISCHI DA ISOLA AFFOLLATA #3: THE NOTTING HILLBILLIES-Missing...Presumed Having A Good Time




giovedì 17 settembre 2015

RECENSIONE: JACKIE GREENE (Back To Birth)


JACKIE GREENE  Back To Birth (yep ROC Records, 2015)




Qualcuno di voi lo ricorderà alla chitarra dei BLACK CROWES nell’ultimo (?) tour della band dei fratelli Robinson. All’Alcatraz di Milano nel 2013 ebbe il difficile compito di rimpiazzare Luther Dickinson e ci riuscì egregiamente. Oppure avrete letto il suo nome tra i componenti dei Trigger Hippy, band formata da Steve Gorman, batterista dei Black Crowes, e dalla cantautrice giramondo Joan Osborne. In verità il californiano Jackie Greene è un cantautore e polistrumentista con cinque album solisti alle spalle, votati al folk, che ottennero anche buoni riscontri di critica all’uscita. Dopo cinque anni di assenza ritorna con quello che si può definire il classico album della maturità. Il  bagaglio delle esperienze si è arricchito negli ultimi anni, permettendogli di esplorare diverse strade contemporaneamente, con risultati sempre sopra la media: dal carezzevole vento  west coast ’70, seguendo la stella di Jackson Browne (A Face Among The Crowd) a episodi ancora più leggeri (Now I Can See For Miles), dagli umori sudisti, ora soul (Trust Somebody, Where The Downhearted Go) ora gospel/blues nella pianistica a due atti  ‘Hallelujah’ , caracollanti passeggiate nel country  (Motorhome), fino alla più tirata e rock The King Is Dead. Un disco essenzialmente di ballate, dalla scrittura limpida e cristallina (a volte fin troppo pulito), ben prodotto dal Los Lobos, Steve Berlin. Un quieto e onesto traghettatore verso l’arrivo dell’autunno…



RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (2015)
RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Love And The Death Of Damnation (2015)
RECENSIONE: LANCE CANALES-The Blessing And The Curse (2015)



sabato 12 settembre 2015

RECENSIONE: CHRIS STAPLETON (Traveller)

CHRIS  STAPLETON Traveller (Mercury, 2015)





Sì, viaggiare
Chris Stapleton ha viaggiato per buona parte dei suoi trentasette anni nel retro bottega della musica americana, come componente degli SteelDrivers e dei Jompson Brothers, ma soprattutto come autore per numerosi cantanti country del giro di Nashville, ricevendo anche buoni riscontri commerciali. Nel 2013, sulla strada della vita, invece, incontra l’ostacolo più grande, la perdita del padre: carica i bagagli, fa salire la moglie su una grossa Jeep e parte alla ricerca di se stesso e nuove ispirazioni. Lungo il viaggio dall'Arizona al Tennessee ha raccolto 14 canzoni (due le cover tra cui spicca una perfetta Tennessee Whiskey ) che si è tenuto per sé, e registrato con Dave Cobb, uno dei produttori più in voga del momento. Ne è uscito un debutto sorprendentemente intenso e profondo dove l’amore per l’outlaw country ’70, lo scarno folk e il soul trovano un collante nella voce, vera arma vincente di questo nuovo fuorilegge errante tra i grandi spazi americani.
Enzo Curelli 8 da Classic Rock # 34 (Settembre 2015)



vedi anche
RECENSIONE: RYAN BINGHAM-Fear And Saturday Night (2015)
RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Love And The Death Of Damnation (2015)
RECENSIONE: LANCE CANALES-The Blessing And The Curse (2015)


mercoledì 9 settembre 2015

RECENSIONE: LUCERO (All A Man Should Do)

LUCERO  All A Man Should Do  (ATO Records, 2015)






La maturità
La stella brillante continua ad illuminare il percorso della band di Ben Nichols. Se la decisa virata verso il Memphis sound del precedente WOMEN & WORK aveva fatto storcere il naso ai fan della prima ora, con l’ottavo album prodotto ancora da Ted Hutt, fanno solo mezzo passo indietro a favore della varietà che concentra i diciotto anni di carriera che li ha visti protagonisti dell’alt country. Anche se manca la rabbia giovanile, quella si è persa: i fiati persistono in un poker di coinvolgenti R & B (Can’t You Hear Them Howl ), le ballate dolenti (la springsteeniana My Girl And Me In ’93) e descrittive (I Woke Up In New Orleans) continuano a dipingere romantici quadri per losers. Per la prima volta in un loro disco compare pure una cover: I’m In Love With A Girl dei Big Star con Jody Stephens ospite. A fare la differenza ci sono sempre la voce tagliente e i testi di Nichols e quando ci prende per mano in Went Looking Warren Zevon ‘s Los Angeles per una nostalgica passeggiata per le vie della città degli angeli è meglio di qualsiasi guida turistica in commercio. Enzo Curelli 7 da Classic Rock # 34 (Settembre 2015)






venerdì 4 settembre 2015

RECENSIONE: MARK LANEGAN (Houston-Publishing Demos 2002)

MARK LANEGAN Houston-Publishing Demos 2002 (Ipecac Recordings, 2015)




Come un becchino d'altri tempi, Mark Lanegan sputa a terra, impugna nuovamente la pala con le sue manone tatuate e scava alla ricerca di un passato perduto, così lontano dalle sbandate electro/rock proposte negli ultimi dischi solisti. Anche se lui, alle due ultime prove in studio, ci crede parecchio. Massimo rispetto. Blues Funeral è al top. Quasi volesse rimarcare con fermezza la linea che divide il passato dal presente. E il futuro quale sarà? Lo aveva già fatto l'anno scorso con i dodici inediti presenti nella raccolta Has God Seen My Shadow?. Lo fa nuovamente, a distanza di pochi mesi, e quello che trova sembra ancora terra umida, viva, buona per essere utilizzata e data in pasto ai fan, perché a loro è indirizzata questa uscita. Ecco quindi altre dodici canzoni che ci ricordano il suo tempo migliore, immediatamente dopo la rottura con gli Screaming Trees ma con già cinque dischi solisti alle spalle e prima di un turbinio di collaborazioni che gli hanno fatto guadagnare il titolo di stakanovista del rock. In questo disco ci sono delle versioni demo, ma in alcuni casi sembrano complete e buone così, registrate in soli sette giorni nell'Aprile del 2002 al Sound Art Recording Sudio di Houston in Texas, insieme a Keni Richards (batteria), Steve Bailey (basso), Mike Johnson (chitarre), Ian Moore (chitarra e sitar), Bukka Allen (tastiere) e Mickey Raphael (armonica). Alcune verranno riprese e lavorate successivamente per altri album (vedi la spartana versione di Grey Goes Black che andrà a finire, con qualche cambiamento, in Blues Funeral), alcune vedono il cielo nero e terso per la prima volta.
Poteva diventare un album ufficiale, e sarebbe stato un  album eccellente e perfettamente incastonato tra Field Songs (2001) e la svolta musicale che prenderà corpo di lì a poco con Bubblegum (2004), anche se caratterialmente è più vicino alla prima parte di carriera. Pur con quel senso di incompiutezza che aleggia qua e là-ma che ci piace tanto- questo è il Lanegan tenebroso, solitario e beffardo che preferiamo: il pistolero western di nero vestito, nipote dei nonni Johnny Cash e Ennio Morricone, nella gelida e malinconica passeggiata di High Life, il bluesman decadente in The Primitives, il folker solitario e disperato in A Suite For Dying Love e nella orientaleggiante Two Horses, il crooner che canta per il popolo che affolla i cimiteri con la voce che sembra arrivare dall'aldilà in I'll Go Where You Send Me e Nothing Much To Mention, il rocker dimesso nell'apertura No Cross e nelle chitarre acide e pressanti di When It's In You che diventerà poi Methamphetamine Blues, il cerimoniere ossianico nella conclusiva e ipnotizzante Way To Tomorrow.
Certamente non indispensabile, ma ottimo per i nostalgici, e bello per chi volesse approcciarsi ora, in gran ritardo, alla musica di Lanegan.




RECENSIONE: MARK LANEGAN-Blues Funeral (2012)
RECENSIONE: MARK LANEGAN-Dark Mark Does Christmas  (2012)
MARK LANEGAN BAND live @ Alcatraz, Milano, 5 Marzo 2015