lunedì 14 luglio 2014

RECENSIONE: RIVAL SONS (Great Western Valkyrie)

RIVAL SONS  Great Western Valkyrie (Earache Records, 2014)



Anche se il loro Pressure And Time (2011) può tranquillamente essere considerato tra le migliori uscite di classic hard rock degli ultimi dieci anni, un debutto folgorante (il primo disco vero e proprio fu l'autoprodotto Before The Fire del 2009) i Rival Sons non sono per nulla appagati e non accennano a frenare in corsa. Si vestono a festa, si mettono in posa, ma picchiano ancora duro con gusto e classe d'altri tempi, continuando un processo di miglioramento che sembra non conoscere limiti, quasi i tour fossero un collante necessario all'ispirazione e proprio nei loro dischi cercano di catturare in tutto e per tutto quella carica e il fervore sprigionati sopra al palco. Il poker iniziale è quanto più di incandescente e suadente si sia ascoltato di recente: la bruciante Electric Man attacca a spron battutto ("I'm Electric, Yes I Am", cantano in Electric Man, tutto molto rock'n'roll senza alte pretese liriche ovviamente), Good Luck è un persuasivo rock zeppeliniano fino al midollo, shackerato con la carica della ultima garage band rimasta in terra, Secret una tirata quasi purpleiana nel suo cavalcare e sciamanica nello rispolverare i resti di Jim Morrison abbandonati sulla vecchia credenza, Play The Fool prende in prestito addirittura l'inciso di Misty Mountain Hop, un piccolo furtarello, questa volta un po' evidente, che si fa immediatamente perdonare.
Se togliete le recenti ristampe dei Led Zeppelin (fuori concorso per ovvie ragioni di onnipotenza) non vi rimane che tuffarvi dentro a un disco che il cantante Jay Buchanan si prende immediatamente per mano e conduce con gran piglio da leader dall'inizio alla fine tra spettacolari tirate (Open My Eyes, Belle Starr) e momenti dove a prevalere è il lato blues e soul, uno dei loro punti di forza che li differenzia da buona parte del retro rock imperante: magniloquente, sentita, calda e notturna è Good Things dove il chitarrista Scott Holiday ricama di fino tra blues, anima, magia e il corso del destino, trascinata da un hammond è Rich And Poor che richiama nuovamente lo spirito dei Doors, bucolica la ballata Where I've Been che tradisce la loro provenienza californiana dopo tanto british rock e la registrazione in quel di Nashville-ancora con il produttore Dave Cobb- lo sottolinea ulteriormente. Fino all'epico, psichedelico e tenebroso finale Destination On Course con la lunga coda jammata che mi da l'opportunità di segnalare la sezione ritmica (Michael Miley e il nuovo entrato David Beste): micidiale.
Le orecchie attente vi segnaleranno i tanti rimandi sparsi lungo il disco, date loro ascolto, fate un cenno con il capo ma fregatevene. Tradizionali, spregiudicati, avvolgenti, sensuali, senza tempo, concisi (dieci canzoni dieci e nessun filler inutile). Con buona pace  di chi le orecchie le ha lasciate sopra a qualche disco pre 1975, in questi solchi (ah il vinile sarebbe adatto qui) viaggia il miglior classic rock dei nostri giorni. Un peccato mortale non accorgersene per troppo snobismo.



vedi anche RECENSIONE: RIVAL SONS-Pressure & Time (2011)
vedi anche RECENSIONE: RIVAL SONS-Head Down (2012)
vedi anche RECENSIONE: NAZARETH-Rock'N'Roll Telephone (2014)
vedi anche RECENSIONE: TOM PETTY & THE HEARBREAKERS-Hypnotic Eye (2014)



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