venerdì 14 marzo 2014

RECENSIONE: DRIVE-BY TRUCKERS (English Oceans)

DRIVE-BY TRUCKERS English Oceans (ATO, 2014)



Un altro bel passo in avanti che non ti aspetti. Non musicale-da loro sappiamo cosa aspettarci- ma di solidità e longevità. Sono passati tre anni-tanti per i loro canoni-dal rilassato, nero e trascinato (con classe) Go-Go Boots (in verità nato già come un sequel di The Big To-Do), ma la band texana di Patterson Hood e Mike Cooley (ampio il suo apporto in fase di scrittura questa volta) dimostra di non avere ancora le pile completamente scariche dopo vent'anni di onorata carriera e il prestigioso merito di aver tenuto alto il vessillo di un certo modo di suonare e vivere il rock tutto americano, impreziosito da liriche sempre al di sopra della media, anche qualcosina in più come dimostrato anche questa volta nell'attacco politico di The Part Of Him e nei consueti dipinti quasi gotici delle terre del sud (l'up country alla Willie Nelson di First Air Of Autumn). Negli anni duemila, anni poveri e senza veri scossoni musicali, avere tutte queste caratteristiche e qualità è un pregio da difendere con i denti e loro sembrano farlo fin dall'attacco dell'iniziale e dura Shit Shots Count, chitarre che non lasciano il respiro se non nell'irruzione dei fiati, nel finale, che virano la canzone al suono di New Orleans. Fedeli agli stilemi dettati da loro stessi nella monumentale rock opera sudista che ha aperto il nuovo millennio (Southern Rock Opera del 2001) dove southern rock e americana convogliavano a nozze per non separarsi più, English Oceans è un disco che guarda più a quel passato, spogliandosi di tutti gli orpelli superflui e maestosi dell'altro ieri (nuovamente cambi in formazione intorno ai due leader, questa volta ad abbandonare i camionisti sono Shonna Tucker sostituita da Matt Patton proveniente dalla band ‘The Dexateens’ e John Neff , mai sostituito) registrato in pochi giorni e con il groppo in gola dopo la scomparsa di Craig Lieske, roadie tuttofare del loro entourage, a cui il disco è dedicato. La lunga, malata e conclusiva Grand Canyon è tutta per lui.
Ne hanno beneficiato l'immediatezza e la schiettezza. Le chitarre riprendono il comando del suono, correndo nervose come il vecchio "cavallo pazzo" montato da Neil Young (When He's Gone, Hearing Jimmy Loud), il pianoforte è una presenza gradita e sempre vivace nel riempire i pochi buchi della loro musica come avviene in Til He's Dead Or Rising e nel bellissimo e sbilenco honky tonk Natural Light , e quando cala l'oscurità sulle terrose strade del sud, calano anche i ritmi ma non l'intensità: Made Up English Oceans, Hangin On, la pianistica When Walter Went Crazy sono ballate amare, condite dalla consueta ironia, ma distese e pacificanti. Nessuna novità, ma non è questo che ci si aspetta da un gruppo come loro.  Band da tenere stretta stretta.






vedi anche RECENSIONE: ANDI ALMQVIST-Warsaw Holiday (2013)



vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)



vedi anche RECENSIONE: DEX ROMWEBER DUO-Images 13 (2014)




vedi anche RECENSIONE: JOHNNY CASH- Out Among The Stars (2014)







Nessun commento:

Posta un commento