giovedì 30 gennaio 2014

RECENSIONE: DAVID CROSBY (Croz)

DAVID CROSBY  Croz (Blue Castle Records, 2014)


Quando lo vedi sopra al palco catalizza l'attenzione con il solo carisma senza spostarsi di un centimetro, tanto da mettere in ombra i suoi fidi compagni di sempre: il lunatico e bizzoso Stephen Stills e l'etereo e più ginnico Graham Nash. I pochi ma sempre lunghi e candidi capelli bianchi al vento, i baffoni come li portava già nel 1969-gli manca solamente la giacca di renna scamosciata con le frange, la stessa indossata poi da Dennis Hopper in Easy Rider-la voce inconfondibilmente pura che fluttua nell'aria, il fisico segnato dalla vita- ma poi nemmeno troppo diverso rispetto a noi comuni mortali-David Crosby ha sempre incarnato lo spirito del suo tempo "migliore", quello sognante, quello ancora lontano da una tentata autodistruzione culminata negli anni ottanta e costruita su abusi, armi da fuoco illegali, galere e dalle inevitabili conseguenze prodotte da un trapianto di fegato avvenuto nel 1994 e da ripetuti attacchi al suo debole ma roccioso cuore. Nonostante tutto sembra ancora lo specchio di quel periodo, epoca che apriva e chiudeva il sogno americano con la conseguente rassegnazione di chi si è bruciato tutto, troppo in fretta, per troppi ideali disattesi e troppe utopie. Una generazione che ci ha provato: "un grande uomo disse 'ho un sogno'. Un altro arriva e gli spara in testa" canta in Time I Have. La fortuna di guardarsi indietro e spiare in avanti fa spesso capolino tra i testi (Slice Of Time, Holding On To Nothing). La  fortuna di un sopravvissuto. Crosby ringrazia. Di tutte queste cadute con relative rinascite canta nella personale Set That Baggage Down, uno dei picchi confessionali e musicali del disco con una chitarra elettrica che fa il suo, un groove che sale ed un'esortazione ad alzarsi sempre e comunque davanti ad ogni sciagura: "Rise Up, Rise Up" canta nel finale.
Dopo un capolavoro epocale e tanto "malato" da non fargli nemmeno ricordare il proprio nome (If I Could Only Remember My Name del 1971), disco che lo consacrò guida spirituale dell'intero movimento della West Coast Californiana e tra i manifesti più puri e lisergici dell'epoca, dopo la risposta a quella domanda avvenuta a quasi vent'anni di distanza, anni di rinascita soprattutto fisica (Oh,Yes I Can del 1989), dopo le tante strade percorse, anche sbagliate, del poco significativo disco di cover Thousand Roads del 1993: ad altri vent'anni dal quest'ultimo disco, ci rivela il nome, la sua identità. Chiamatemi tutti Croz sembra voler dire, sbattendo un significativo primo piano del suo faccione in copertina senza nessuna remora nel mostrare rughe e segni di vecchiaia (il CD è avvolto in un digipack veramente ben rifinito). Con l'unico rimpianto-suo e nostro-di essere arrivato al solo quarto disco solista in cinquant'anni di carriera, trascorsi come si farebbe sopra ad una montagna russa senza fine, dai fasti inarrivabili di Byrds e CSN & Y ai buchi degli anni ottanta pur con qualche sporadica e buona perla da cercare nei dischi targati CSN (Delta, Compass, Dream From Him).
Un disco che non lascia sorprese epocali, non si avvicina minimamente al capolavoro della vita anche se ha in comune quella impalpabile flessuosità che lo accompagna da sempre, ma  è una foto fedele del suo autore negli ultimi anni, uno sguardo attento alla sua anima interiore e a quello che lo circonda, perché lontano dalle scene e dalla vita, nell'ultimo ventennio, non ci è mai stato veramente. In pista sia con i compagni di una vita girando il mondo in tour, con il solo fraterno Nash (bello e spesso dimenticato è il loro disco del 2004), e con il gruppo CPR messo in piedi con il figlio ritrovato James Raymond (qui arrangia, produce e suona molto). Proprio da qui si riparte. Scritto interamente con il figlio, Croz è un album  dal passo lento, armonico, dal feeling jazzato che non ha fretta di arrivare, che non cerca i facili consensi: "l'ho scritto per me stesso" dice Crosby.
Un album contemplativo fin dall'iniziale What's Broken con la chitarra carezzevole di Mark Knopfler, brano piacevole anche se i due non si sono mai incontrati veramente-hanno collaborato a distanza-un qualcosa che ai tempi d'oro non sarebbe mai successo. A pensarci si perde un po' di quella antica magia che invece sembra avvolgere tutto il lavoro. Se ne prende atto e si va avanti tra stoccate alla moderna politica militare USA (la fumosa Morning Falling); acuti quadretti sulla prostituzione giovanile condotti con sola voce e chitarra arpeggiata (If She Called) e dipinti con la saggezza paterna dopo aver visto delle giovani ragazze al lavoro in un marciapiede fuori da un hotel dove soggiornava in Belgio; le immancabili armonie vocali che escono da Radio; i raffinati velluti jazzistici sia in Holding On To Nothing offerti dalla tromba di Wynton Marsalis che si mescola ad una chitarra acustica e nella finale Find A Heart vetrina musicale per i virtuosi ospiti Steve Taglione (sax) e Leland Sklar (basso); ma anche la sorprendente esplosione elettrica nella seconda metà di The Clearing, tra le più rock delle undici tracce -insieme a Set That Baggage Down- con il synth del figlio James Raymond e le chitarre di Marcus Eaton e di Shane Fontayne (che qualcuno ricorderà alla corte di Bruce Springsteen nel tour del 1993) a  dar battaglia. Però non tutto gira bene e Dangerous Night cade nello scalino di un AOR stanco e poco incisivo.
Eterno rispetto per un uomo (superstite) che ci fa visita solo quando ha qualcosa da dire. Un disco che avrà scritto solamente per se stesso, come dice, ma con la classe appartenente a pochi e la capacità di arrivare ancora a molti. Primo grande disco del 2014.


vedi anche RECENSIONE: NEIL YOUNG-Live At tHe Cellar Door (2013)




vedi anche RECENSIONE: BAP KENNEDY-Let's Start Again (2014)




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vedi anche RECENSIONE: LEON RUSSELL-Life Journey (2014)




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lunedì 27 gennaio 2014

RECENSIONE: TEX MEX (Hang Loose, Tex Mex!) & INTERVISTA a FRANK GET

TEX MEX  Hang Loose, Tex Mex!  (atoproduzione, 2014)


Come tutte le storie più belle, anche il viaggio dei triestini Tex Mex giunge al termine del percorso, proprio ora che li ho conosciuti ed iniziavano a viziarmi con il loro blues costruito con l'antica cura di una volta e domiciliato nell'estremo est del nostro paese, terra sempre ricca di tradizioni e buonissima musica rock. Ma non è un addio definitivo alle scene, solo un "arrivederci" che prestissimo si tramuterà in una nuova band, un power trio che ha già un nome scritto e un futuro segnato: Ressel Brothers Blues Band. Scelta maturata durante l'incisione di due nuove tracce in studio: il southern rock dai forti umori Lynyrd Skynyrd di Dancing Around To The Fire e l'ancora più possente Can You See, canzoni qui presenti e registrate nel Novembre del 2013, buone testimoni del futuro nuovo corso. "E' curioso il fatto che le due nuove registrazioni, che rappresentano la fine del percorso per la band Tex Mex, racchiudano comunque gli elementi che troveremo nel nuovo album che stiamo già registrando con il nuovo gruppo (Ressel Brothers), in questo caso potrei dire che segnano un cambio di direzione sicuramente non studiato a tavolino ma raggiunto in maniera assolutamente spontanea.... posso sicuramente dire che i cambiamenti (quando si è pronti ad accettarli) portano ad aperture mentali e stilistiche a volte inaspettate". Così mi racconta Frank Get, cantante e bassista del gruppo. Una scelta dettata principalmente da una lenta revisione della formazione originale che negli anni ha visto snaturare il significato di partenza del progetto, suppongo. Il modo migliore per abbandonare il vecchio monicker è racchiudere la "storia", seppur breve, in un disco live che comprende alcune testimonianze raccolte lungo le tante strade percorse durante gli ultimi tre anni. Trattandosi di canzoni estrapolate da diverse date e location, si è pensato di tagliare, in gran parte, pause e pubblico tra una canzone e l'altra, tanto che potrebbe benissimo essere un disco di studio registrato in presa diretta  come lo fu-veramente-il precedente The Best Has  Yet To Come (2012)-vedi recensione. Perché durante i live, la band triestina (oltre a GetMatteo Zecchini alle chitarre, Giovanni Vianelli al piano, Sandro Bencich alla batteria) riesce a tirare fuori il meglio di stessa. Band amante delle lunghe jam strumentali-spesso mi torna in mente la libertà compositiva dei Little Feat-e dei voli pindarici, e qui a spiccare è la parentesi quasi prog di My Obsession con il flauto ospite dello statunitense James Thompson a spadroneggiare. "Il lato jam band è forse la componente più divertente in questa band ed è una caratteristica soprattutto dei singoli musicisti che son portati a cercare i momenti di jam.... anche se gran parte dei pezzi son scritti da me, all'interno di ciascun arrangiamento c'è sempre spazio per qualunque tipo di interazione tra tutti noi (forse sarà dettato dal fatto che tutti quanti per moltissimi anni abbiamo suonato in varie formazioni in giro per l'Europa in situazioni in cui le prove al massimo si facevano per telefono ). Riguardo a James posso dirti che ci conosciamo e siamo amici da quasi trent'anni (il primo incontro avvenne ad un festival dell'Unità nell' 87 dove James si esibiva con Arthur Miles ed io facevo il fonico) poi ci siamo frequentati sia quando suonava con il pianista Stefano Franco sia quando suonava con Zucchero (in quel periodo ho suonato anche con Derek Wilson e Mario Schilirò). Qualche anno fa abbiamo pure fatto assieme un mini tour con No Stress Brothers (blues band austriaca). James oltre ad esser stato ospite nel CD Tex Mex e aver suonato con noi in alcuni concerti; ha suonato pure nel mio CD solista "Hard Blues" del 2009".
Fortemente ancorata alle radici terrose che attorcigliano le grandi southern/blues band dei seventies, si ascolti il divertentissimo e cavalcante blues di Don't Step Along The Line, corsa a tutta slide (Matteo Zecchini) e armonica (Marco Beccari) ma anche quando a prevalere è il suono più raffinato, acustico e unplugged, il calore non smette di cessare, anzi, corre ancora più forte lungo i tasti di un presentissimo pianoforte. Succede in tre composizioni: quelle che aprono il disco (Don't Think Twice, Hot Aliens Aftrnoon, Work On Time) registrate con il compianto primo batterista Dario "Doppio" Vatovac, le sue due ultime registrazioni prima di lasciarci. "Dario oltre ad esser stato uno dei fondatori della band è stato soprattutto un grande amico, era la persona che con l'esperienza (è stato, negli anni 70, batterista dei Boomerang, rock band della ex Yugoslavia, e poi ha vissuto negli Stati Uniti per più di 15 anni) e la capacità di sintesi sapeva dire la parola giusta al momento giusto. La registrazione testimonia l'ultima volta in cui si è seduto dietro la batteria ed abbiamo suonato assieme....è incredibile come nella registrazione ( è l'unica di tutto il CD non a tracce separate, quindi senza possibilità di remix) siamo riusciti a catturare il feeling ed il momento assolutamente unico!! Grazie Dario!"
A lui è dedicata anche la springsteeniana No Surrender, registrata live durante il release party del loro primo Cd e che vede la partecipazione di Elisa Maiellaro ai cori.
Un disco che riesce a trasmettere la vera passione per la musica dei rodati protagonisti, creando quell'ideale aggancio tra l'America musicale e le radici della loro terra, tanto che il nome della futura band sarà Ressel Brothers, monicker ispirato dal cognome di un loro concittadino del 1800, il ceco Josef Ressel, inventore dell'elica navale nonché con il prestigioso merito di aver iniziato un importante progetto di rimboschimento del loro Carso.
Arrivederci a prestissimo, quindi.




vedi anche RECENSIONE: TEX MEX-The Best Has Yet To Come (2013)
vedi anche RECENSIONE: RUSTED PEARLS & THE FANCY FREE-Roadsigns (2012)
vedi anche RECENSIONE: W.I.N.D.-Temporary Happiness (2013)
vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)

martedì 21 gennaio 2014

RECENSIONE: BAP KENNEDY (Let's Start Again)

BAP KENNEDY  Let's Start Again  (Proper Records/IRD, 2014)



La "penna" di Bap Kennedy è una stilografica di valore, di quelle che usi solo nelle buone occasioni per scrivere cose importanti. Quelle parole che devono rimanere nel tempo. E di cose buone e importanti il cinquantenne cantautore di Belfast ne ha sempre lasciate sul foglio bianco, nonostante abbia portato avanti la sua carriera senza i meritati riconoscimenti di pubblico che gli spetterebbero, proprio come una penna di valore tenuta sempre nascosta per paura d'essere consumata dai più. Di bellezza non fa eccezione nemmeno questo nuovo Let's Start Again che esce a soli due anni di distanza dal precedente Sailor's Revenge che gli fu prodotto da Mark Knopfler, forse il picco artistico come autore; fu il perfetto incontro tra la musica americana incrociata fin dall'esordio solista Domestic Blues sotto l'ala protettrice di Steve Earle che lo volle fortissimamente in quel di Nashville-american roots amplificate poi dal personale tributo a Hank Williams-e le sue vere radici celtiche, sviluppate nel passato remoto collaborando con il mentore Van Morrison che ha sempre stravisto per lui fin da quando faceva il "rocker" suonando negli Energy Orchard, sua prima band con cinque dischi in discografia. Sostanzialmente meno brumoso e malinconicamente irish del precedente, questa volta, Kennedy, autore onesto e musicalmente curioso come un vero marinaio dei due mondi, ritorna al suo passato musicale, riabbracciando sì il country ma tornando a registrare nella sua Irlanda Del Nord con l'aiuto in produzione del vecchio amico "ritrovato" Mudd Wallace, e suonando insieme alla fedele band che lo accompagna dal vivo più un nutrito numero di musicisti del posto: la moglie Brenda Boyd al basso, Gordy McAlliser alle chitarre, Rabb Bennett alla batteria, John McCullough alle tastiere, Noel Lenaghan al mandolino, Richard Nelson  alla pedal steel e dobro e John Fitzpatrick al violino.
Semplicità, maturità e stile, abbinate alla romantica positività dei testi, sono caratteristiche che affiorano in ognuna delle undici canzoni che spaziano a tutto campo, rivisitando l'intera carriera: il country da grandi spazi condotto da pedal steel e slide (Let's Start Again, l'up tempo della corale Revelation Blues, la contagiosa leggerezza di un ardente desiderio in Song Of Her Desire), l'amore per il rock'n'roll dei '50 nel doo-woop di If Things Don't Change e Heart Trouble  quasi ad accarezzare il jazz ma con un ispiratissimo violino guida ,il folk a passo di lento valzer (Let It Go), le cullanti e nostalgiche onde radio che pervadono Radio Waves, l'ardente Under My Wing tra caraibi e Van Morrison, e tuffi in atmosfere calienti, tex mex e latine (Fool's Paradise e King Of Mexico che si muove con lo stesso passo de La Bamba) a dimostrazione che la sua "penna" possiede più colori: meno grigi e freschi rispetto al precedente Sailor's Revenge ma più rossi e cocenti.
Degna di nota, infine, la deluxe edition che include un disco in più. Una sorta di greatest hits contenente altre undici tracce scelte tra i suoi vecchi dischi: Domestic Blues, Lonely Street, Howl On, The Big Picture, più due versioni acustiche di Jimmy Sanchez e Please Return To Jesus.
Un disco di altissima classe cantautorale con ancora impresse la freschezza e la vitalità del debuttante ma scritto con la maturità del veterano, e in grado di traghettare, a passo lento ma con qualche lunga falcata, le mie uggiose giornate di questo inverno verso l'imminente primavera.
In uscita il 3 Febbraio 2014.





vedi anche RECENSIONE: BILLY BRAGG-Tooth & Nail (2013)




vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)




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vedi anche RECENSIONE: TIM GRIMM-The Turning Point (2013) 




vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY-Croz (2014)



giovedì 16 gennaio 2014

RECENSIONE: BRUCE SPRINGSTEEN (High Hopes)

BRUCE SPRINGSTEEN  High Hopes (Sony, 2014)



Mi spiace deludervi. Deludermi. Se siete arrivati fino a qui sperando di leggere una nuova, fresca e magari diversa recensione del nuovo album di Bruce Springsteen, non la troverete. In verità c'è, ingrossata da continui rimaneggiamenti, un working in progress che non ha più senso nella mia testa, non è fresca e diversa ma c'è, e rimarrà nascosta per sempre tra le bozze incompiute del blog. Per scovarla dovreste scassinare il mio profilo blogger (non ne vale la pena, giuro). Ho scoperto che non ha più senso, non importerebbe più a nessuno sapere di queste canzoni, dei miei pensieri a riguardo (anche se alla fine ci casco). E' già stato detto tutto, il contrario di tutto: capolavoro o cagata pazzesca? Cos'è questo disco? Perché? Ha un senso la sua uscita? Stai a vedere che la verità è, poco originalmente, proprio lì, nel mezzo. Posto stretto e impolverato che non interessa mai a nessuno. Come sempre. Ma io adoro il grigio. Quindi: acqua gelida su esaltazioni fin troppo esagerate per un disco di mezzi scarti, assemblato apparentemente (sottolineo apparentemente) senza senso se non tenuto unito dalla presenza della chitarra di Tom Morello e da alcuni canzoni su tematiche di sogno e speranza che affiorano dai testi, poi anche un po' di fuoco a riscaldare gli animi su chi ha gettato fango ghiacciato troppo preventivamente e gratuitamente. Non si fa. Mi ci metto. Mea culpa.
Ecco i miei pensieri ordinati in due post svolazzanti che ho scritto frettolosamente e di getto, e poi pubblicati sul mio profilo facebook a distanza di dieci giorni l'uno dall'altro. Non combaciano. Poco importa. Poco interessa. Prima o poi, ne arriverà un terzo...

29 Dicembre 2013. ( Amazon ci ha messo del suo).
"Che poi…mica resisti. Invidio (!?!) chi arriverà vergine al 14 gennaio. Arrivi a casa alle due di notte, lo trovi, lo scarichi, lo metti immediatamente su CD e ti addormenti alla seconda canzone. Ero stanco, non per altro (o era 'premonizione preventiva'?). Ti risvegli alle otto di mattina e sei già al terzo ascolto consecutivo: scartando tre canzoni (quelle che non mi piacciono proprio) da un disco essenzialmente di scarti e frattaglie, rimangono nove canzoni di cui tre cover, scartando le tre cover (bello ritrovare Bruce ‘on the road’ mentre canta di “strade e puttane” anche se ha dovuto scomodare i Saints), rimangono sei canzoni…sei canzoni valgono un disco? Secondo me no, ma l’operazione (discutibile) è questa. Prendere o lasciare". Vedi P.S.2

10 Gennaio 2014. (Ho tra le mani il CD fisico, più il DVD contenente tutto Born In The Usa live registrato a Londra 2013, quattro giorni prima dell'uscita ufficiale. Sono fortunato?).
"Sono partito prevenuto. Super prevenuto. La presa per il culo era dietro l’angolo. Alla fine mi piace, ha un senso, una logica, segue un suo percorso anche se a tratti va a sbattere, senza mai farsi male veramente però. Coraggioso e temerario, in alcuni punti perfino parossistico, ma in fondo ha fatto quel cazzo che ha voluto. Ma chi siamo noi?
Tom Morello? Prima che il chitarrista a tutto “effetti”: UOMO che sposa in toto le” idee militanti” di Springsteen fin dai tempi dei Rage Against The Machine, soprattutto a quei tempi (sì, vabbè il contratto con la ricca Columbia cozzava con le dure invettive della band), quando erano tra i pochi megafoni di protesta “ad alto volume” dei ’90, quando presero The Ghost Of Tom Joad la rivoltarono come un calzino, la riempirono di crossover senza disperdere la sua forza dirompente, il testo . Questi due si piacciono per quello. Poi se chiami Tom Morello devi fargli fare anche “il” Tom Morello, scratching compresi, anche se nei suoi dischi solisti gioca a fare “lo” Springsteen folk/acustico, il menestrello. Sarebbe stato giusto aggiungere un “featuring Tom Morello” in copertina. Sarebbero tutti più contenti e avrebbe smussato subito tante chiacchiere inutili. Comunque, anche se ne è un fratello “bastardo”, già preferisco questo a Wrecking Ball, che credo sia il disco di Springsteen che ho ascoltato meno, e non perché sia l’ultimo in ordine di tempo…proprio non regge i MIEI ascolti. Spero che nella sua anomalia da istant record che testimonia una breve parentesi di vita- o di noia tra un tour e l’altro, o di mossa commerciale (risposta esatta?)-usando canzoni pescate da una parentesi di tempo molto più ampia, iniziata nel 2001, High Hopes passi per quello che è: un disco spartiacque tra una vecchia fine e un nuovo ennesimo inizio. Quanti possono permetterselo? Ma poi…chi sono io?"

P.S. 1. Una MIA curiosità finale: ma quanti die hard fan di Springsteen hanno mai ascoltato prima Tom Morello? Nei Lock Up (suo primo gruppo), nei Rage Against Machine, negli Audioslave (RATM più Chris Cornell), nei Street Sweeper Social Club (insieme a Boots Ryley), nel progetto solista The Nighwatchman ?

P.S. 2. Le tre canzoni che non mi piacciono
Harry's Place, esce dalle session di The Rising ma potrebbe uscire da quelle di Human Touch e da un televisore acceso con 27 canali e nulla di interessante da vedere e da sentire (soprattutto). Passa veloce. I nuovi personaggi della sua infinita carrellata, meritavano ben altra canzone. Springsteen è già abbastanza popular per essere anche pop (questo tipo di pop con data di scadenza). Appare il sax di Clarence Clemons e qualche punto in più lo guadagna.
American Skin (41 Shots), era perfetta, cruda e agghiacciante nel Live In New York City(2001). Qui no: troppa roba. Rimane uno dei suoi migliori testi degli anni 0.
Down In The Hole. Già sentita nel 1984. Ma compare l'organo del compianto Danny Federici.
Le tre cover
High Hopes degli Havalinas (finalmente arriva il loro momento di fama, anche se con più di vent'anni di ritardo) che già incise e nascose dentro al cd allegato al film Blood Brothers del 1995, quello che documentava la reunion con la E Street Band. Sempre piaciuta, sia l'originale che la prima versione.
Dream Baby Dream dei Suicide che già propose in maniera più convincente in tour passati.
Ritorna ipoteticamente a cavalcare l'asfalto con Just Like Fire Would degli australiani The Saints, un rock abbastanza fedele all'originale che merita un dieci già solo per essere stata scelta e un nove per quel ritorno al Jersey Sound, anche se troppo pettinato.
Le sei canzoni rimanenti
The Wall, con lo zampino dell'amico Joe Grushecky (ecco, il suo ultimo Somewhere East Of Eden contiene tante cose che vorrei risentire da Springsteen). Canzoni così ne ha scritte a decine, ma questa rimane l'assoluto capolavoro del disco.
Heaven's Wall, sorella di Rocky Ground, contiene una infinità di spunti interessanti, peccato siano mescolati così a caso ed in modo disordinato. Tutti pronti per celebrarla nei prossimi live, già vedo le manine alzate.
The Ghost Of Tom Joad. Una canzone perfetta che tale rimane anche con la chitarra di Morello già svezzata a queste note fin dalla versione che ne fecero i Rage Against The Machine nel 1999. Solo un minuto di troppo: quello finale.
La parte centrale del disco, la parte solida, omogenea e compatta: Frankie Fell In Love (mi ricorda il buon rock del sempre dimenticato Lucky Town-1992), This Is Your Sword con il suo retrogusto irish si aggancia alle Seeger Sessions, Hunter Of Invisible Game è in perfetta linea con la sua produzione degli anni 2000.


vedi anche RECENSIONE: BRUCE SPRINGSTEEN-Wrecking Ball (2012)




vedi anche RECENSIONE: TOM MORELLO the NIGHTWATCHMAN-World Wide Rebel Songs (2011)



vedi anche RECENSIONE: DAVID CROSBY- Croz (2014)






lunedì 13 gennaio 2014

RECENSIONE: SUGAR RAY DOGS (Sick Love Affair)

SUGAR RAY DOGS  Sick Love Affair (Sugarraydogs.com/IRD, 2013)


Dopo settimane di ascolti dedicate ai Mink DeVille, mi piomba sullo stereo il disco degli italiani Sugar Ray Dogs, band pavese al secondo album dopo l'esordio discografico Vaudeville'n'roll del 2011. Strane coincidenze. "E allora?" direte voi. Allora, una volta aperto il libretto noto che tra i musicisti ospiti, in quattro brani, c'è Fred Koella, chitarrista alla corte di Willy De Ville che suonò pure con le band di Bob Dylan (periodo 2003/2004), con Zachary Richard e Dr.John. Bel colpo, mi dico. Ma questo non faccia passare in secondo piano la musica e i meriti del gruppo: il loro, è il suono di una band in continuo movimento (già numerosi i tour in tutta Europa, sintomo che noi italiani arriviamo sempre in ritardo, anche a casa nostra), capace di assorbire tanto lungo il cammino, partendo dal rockabilly, arrivando all'irish folk, al gypsy rock, al tex mex con l'innata capacità di fare loro i suoni incontrati lungo le tante strade che dalle misteriose paludi della Louisiana portano alla nebbie della pianura padana, tanto da far perdere ogni possibile tentativo di classificazione musicale e temporale. Guidati dalla voce e dal basso di  Ernani Ray Natarella-anche autore di tutti i pezzi-dalla chitarra di Alberto Steri (bellissimo il suo lavoro in Nocturnal) e la batteria di Andrea Paradiso, Sick Love Affair è un disco che come puro distillato d'uva ad altra gradazione, impiega poco ad entrare in circolo: bastano le prime note dell'apertura Time To Run, un trascinante brano con influenze celtiche giocato abilmente da cornamusa e violino (suonato dall'insostituibile violinista di Davide Van De Sfroos, Angapiemage Galiano Persico), gli scatti rock della trascinante Nocturnal con i suoi inserti irish, See You Die e Mortally Wounded e quelli rock'roll '50 di Road Of 7 Sins con la slide di Koella a duellare con l'armonica (Marco "Sonny" Simoncelli) per restare rapiti.
Conquistato l'ascoltatore, non rimane che ammaliarlo e stenderlo con il "bagnato" romanticismo da petoli di rosa rossa di Baby No Mercy e Fall In Love, quest'ultima quasi un omaggio al compianto De Ville con il violino suonato dallo stesso Koella che sembra ricamare idilliache strisce di luce lungo bui marciapiedi di periferia. Diventano irresistibili quando mischiano il folk dei due mondi, mescolando con sapiente mestiere tarantella e irish/folk nella breve strumentale Red Dog, invitando alle danze western da saloon in Tonight, e quelle sudaticce da pub irlandese in We're All Irish, tradendo tutto l'amore per la verde isola, con il violino della brava Chiara Giacobbe a fare il bello e cattivo tempo. Smorzano infine i bollenti spiriti con la corale ballata piena di amarezze Story Without Glory e l'etnicità gospel di Till The End Of Time che impiega poco ad acquistare velocità, congedandosi con lo stesso mood dell'opener.
In un continuo susseguirsi di rimandi e agganci al meglio che potreste chiedere alla musica senza tempo, il viaggio dei Sugar Ray Dogs promette  52 minuti di spasso tra lingue di asfalto sempre pronte ad allargarsi in grandi autostrade o stringersi in angusti boardwalk di periferia che costeggiano corsi d'acqua carichi di straripanti storie di ordinaria follia (musicale) tra sboccato vizio notturno e amaro romanticismo. Da ascoltare.



vedi anche RECENSIONE: CHEAP WINE-Based On Lies (2012)
vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)
vedi anche RECENSIONE: LUCA ROVINI-Avanzi e Guai (2013)
vedi anche RECENSIONE: DANIELE TENCA- Wake Up Nation (2013)
vedi anche RECENSIONE: MASSIMO PRIVIERO-Ali di Libertà (2013)
vedi anche RECENSIONE: GENERAL STRATCUSTER and the MARSHALS -Double Trouble (2013)
vedi anche RECENSIONE: ME, PEK E BARBA- Me, Pek e Barba live 2003/2013 (2013)

martedì 7 gennaio 2014

RECENSIONE: ELSA MARTIN (vERsO)

ELSA MARTIN  vERsO (autoproduzione, 2012)



Arrivo in ritardo e me ne pento. Elsa Martin sta già lavorando al successore, ne sono certo, e questo disco ha già fatto incetta di meritati riconoscimenti e premi durante l'anno appena trascorso. Avevo scritto la bozza per raccontare il disco, ma avevo messo da parte tutto senza alcun motivo, forse schiacciato da altre uscite discografiche più pesanti (!?!). Un disco perso senza una vera colpa, vittima senza un motivo, ma ora sembra riemerso grazie alla sua limpida leggerezza, ad una positiva bellezza che chiede spazio e visibilità tra i miei ascolti a cavallo tra la fine e l'inizio del nuovo anno, quasi fosse buona e purificatrice acqua di fonte.
Anche perché, quando sono invitato all'ascolto di musica dialettale sono sempre contento. Mi ci perdo. Non importa la regione di provenienza e il genere musicale, quello che conta è quella sensazione di antico, arcano e senza tempo che sembra avvolgermi ogni volta. Quando gli input arrivano da una persona giovane come è Elsa Martin, il piacere raddoppia: a sapere che giovani musicisti si impegnano nel far riemergere il passato, guardano alle tradizioni della terra natia che nel suo caso si chiama Friuli Venezia Giulia, proprio la stessa terra di Luigi Maieron che ho tanto apprezzato due anni fa e che scopro anche abitare in un paesino vicino a quello di Elsa, mi si allarga il cuore, perchè quando per motivi famigliari hai un pezzetto di quell'organo così vitale che batte per conto suo proprio in direzione di quella piccola regione così tanto ad est, il piacere arriva anche a triplicarsi.
Verso è il debutto discografico di Elsa, e arriva dopo una buona gavetta costruita con il duro studio del canto (è anche insegnante e musicoterapeuta) e tanti concerti lungo lo stivale che lei stessa ha documentato così bene e con tanto entusiasmo nelle pagine dei social network nel corso del suo intensissimo 2013. Io stavo in disparte e osservavo.
Elsa Martin riesce a creare quell'ipotetico ponte generazionale tra il passato legato ad antichi canti tradizionali dei suoi luoghi di origine, che in parte affida al Trio vocale femminile di Givigliana (E Io Cjanti, Griot, Al vajve lu soreli, quest'ultima ripresa e calata nel presente da Elsa in  Al vaive ancje il soreli), e il futuro rappresentato dai nuovi arrangiamenti e dalle composizioni scritte di suo pugno con l'aiuto di Stefano Montello e Marco Bianchi. Folk, pop e raffinate partiture jazz (Come Un Aquilone) si intrecciano e dialogano così come il linguaggio usato, equamente diviso tra il dialetto fiulano (O Staimi Atenz, Dentrifur, La Lus) e l'italiano (Calda Sera, Neve), ed una voce piena di sfumature tutte da scoprire, capace di trasmettere ottime vibrazioni, raccontandoci dei meravigliosi misteri della natura tramandati nei secoli, del trascorrere del tempo (Neule Scure), dei luoghi fisici e quelli più introspettivi dell'anima. Un piccolo e delicato gioiellino da riscoprire-per me, rimasto "colpevolmente" indietro, per voi se ancora non la conoscete-costruito, seguendo un valido e ben preciso progetto, da un'autrice giovane, preparata, completamente indipendente, slegata da tutti quei circuiti molto spesso fabbriche di false illusioni poi vendute a buon mercato e di cloni plastificati senza personaltà , qualità che qui non manca ma abbonda in gran quantità.




 vedi anche RECENSIONE: LUIGI MAIERON-Vino, Tabacco e Cielo (2011) 



vedi anche INTERVISTA a LUIGI MAIERON 




vedi anche RECENSIONE: DAVIDE VAN DE SFROOS- Yanez (2011)



venerdì 3 gennaio 2014

RECENSIONE:JOE NOLAN (Tornado)

JOE NOLAN  Tornado (Rootsy/IRD, 2013)



Tradizione pesante da portare avanti. I songwriter canadesi che hanno lasciato la firma sopra alla pergamena che ricorda i grandi del rock sono pochi ma indelebilmente segnati in grassetto: Leonard Cohen, Neil Young, Bruce Cockburn, Joni Mitchell, Gordon Lightfoot sono inavvicinabili. Il giovane Joe Nolan, classe 1990 , arriva al secondo disco con un promettentissimo esordio, Goodbye Cinderella uscito nel 2011, che gli valse una nomination al Canadian Folk Music Awards come "miglior artista emergente" e la voglia di continuare a portare avanti quella tradizione in modo onestissimo e senza colpi di testa, ma con una saggezza poetica da veterano consumato, penna brillante, romantica, voce che entra, sano e contagioso entusiasmo che potete riscontrare anche leggendo il diario delle sue giornate aggiornato sul sito personale nel web. Il suo, è un folk grigio, autunnale (le carezze di Autumn Sky e Pawnshop), perfettamente in bilico tra tradizione e presente dove sentimenti (On the Highway cantata insieme alla sorella Nataya Nolan), solitudini, relazioni interrotte (l'apertura I Know The Difference) giocano un ruolo primario nelle liriche, ma con una strabordante forza interpretativa, generatrice di magnetismo e calore non indifferenti. Le atmosfere soffuse, notturne della jazzata I'll Still Remember Your Name che si mette all'inseguimento delle orme di Joe Henry, le malinconiche passeggiate condotte a piccoli passi di danza spruzzati di rock dalla chitarra elettrica in Tighrope Dancer, cantata insieme alla voce di Lindi Ortega, il folk povero di Massey Hall (ancora con la sorella) e quello ricco di archi (Shambles), il lento viaggio di ritorno verso casa su desolate autostrade (Tornado) catturano l'attenzione e promettono tutto il bene possibile per una brillante carriera.
Registrato tra Nashville e Calgary sotto l'ala protettrice di Colin Linden che produce e impreziosisce il tutto con la sua chitarra, coaudiuvato da Marco Giovino e Gary Craig alla batteria, John Dimond (dei Blackie and The Rodeo Kings) al basso e John Whynot alla tastiere.
Mancano più graffi vincenti, quelli in grado di lasciare il ricordo, come quello che esce benissimo in Did Somebody Call The Cops, con quelle chitarre elettriche che si stagliano tra aria e asfalto, lacerando, ma è indubbio che il ventiduenne cantautore di Alberta abbia classe da vendere, e possieda il fattore x in corpo, marchiato, scalpitante e pronto a fargli spiccare il volo.




vedi anche RECENSIONE: JOE HENRY-Reverie (2011)




vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)




vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)





vedi anche RECENSIONE: TIM GRIMM-The Turning Point (2013)