lunedì 11 novembre 2013

RECENSIONE:THE QUIREBOYS (Beautiful Curse)

THE QUIREBOYS   Beautiful Curse  (Off Yer Rocka, 2013)


Ci sono band che non hanno bisogno di uscite "alternative" di sicurezza. Ai Quireboys sono sempre bastati i marciapiedi lungo i docks londinesi, i locali fumosi con i banconi appiccicaticci che raccontavano di serate bagorde dove sesso e romanticismo stringevano patti che duravano notti intere. Le loro storie le hanno raccolte tutte lì, lungo quei metri d'asfalto disseminati di mozziconi di sigarette, vetri infranti e romantici petali di rose rosse gettati in pasto al vento, fin dal loro esordio con l'incredibile successo di A Bit Of What You Fancy (1990) che li fece diventare re del rock'n'roll per una sola notte, tra i più credibili epigoni-in quegli anni insieme ai concittadini Dogs D'Amour e ai cugini d'oltreoceano Black Crowes- di tutte quelle band che su quell'asfalto ci lasciarono impronte ben più indelebili (Rolling Stones, Faces, Rod Stewart, Mott The Hopple). Il collante ideale e perfetto tra il colorato hard rock "sleaze" ottantiano e la decadenza del più classico classic rock dei settanta. Da re caddero presto in acqua, non solo per colpa loro naturalmente, trasformandosi presto in pirati del rock'n'roll che navigavano a vista su scialuppe di salvataggio, paladini di un modo retrò di intendere la musica che la modernità ed il voler essere al passo con i tempi, sempre e comunque, non riusciva più a concepire. Fedeli al verbo del rock'n'roll duro e puro, corroso solamente dall'alcol, guidati dalla voce-con il tempo sempre più aspra e raschiosa-e dal carisma di Spike, uno che ne ha cantate tante (se la sua bandana potesse solo parlare...), e da una girandola di comprimari che si sono succeduti in formazione; da alcuni anni hanno ripreso il timone e navigano con sicurezza tra piccole isole sperdute ma sicure, tenute a galla dai devoti fan, e portando avanti la missione in modo onesto come dimostrato nelle recentissime date live italiane. Ora che il mare della modernità si è acquietato, c'è ancora spazio per il loro hard rock'n'roll di vecchio stampo, dove ibridi abrasivi tra AC/DC e Stones ( Too Much Of A Good Thing) con le chitarre in primo piano dell'altro veterano Guy Griffin e di Paul Guerin si sposano alla perfezione con quelle ballate evocative, come si facevano una volta (Mother Mary), sporcate dall'ugola si Spike, tanto
convenzionali e già sentite ma che sogneresti di ascoltare ancora per una volta in un disco di Rod Stewart. Anche la linguaccia sbavante degli Stones fa capolino più volte tra gli honky tonk di King Of Fools e For Crying Out Loud che potrebbero uscire dalle sessions del forzato "esilio" francese di Jagger e soci, al groove irresistibile giocato dalla sezione ritmica (Pip Mailing alla batteria e Nick Mailing al basso) di Diamonds And Dirty Stones che fa l'occhiolino agli Stones più funky e danzerecci.
Una raccolta varia di canzoni sanguigne, coerenti con la loro storia, il loro passato, il loro presente: classic rock songs imbevute nel brandy e perse nell' hammond di Keith Weir (Talk Of The Town, I Died Laughing), di soul blues (Homewreckers And Heartbreakers che era anche il titolo dell'ultimo album uscito nel 2008), perfette drive songs ma con il pensiero ben catalizzato a quell'età maledetta nel rock (Twenty Seven Years), ballate pianistiche (Don't Fight It).
Un disco che emana buona freschezza compositiva, tanto piacevole e
brillante da far sperare che la scialuppa di salvataggio con la bandiera a brandelli che li ha condotti fino ad oggi dopo trent'anni di onorata carriera, si possa trasformare ancora una volta in veliero con le vele spiegate e Spike con i suoi bucanieri possano ridiventare re per almeno un altra notte.





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