lunedì 18 novembre 2013

RECENSIONE:CAROLYNE MAS (Across The River)

CAROLYNE MAS Across The River (Route 61, 2013)

Artista predestinata. Lo si capisce leggendo la pagella scolastica di quando aveva soli sei anni, scritta da un'insegnante e datata 1961, riportata nel bel libretto che accompagna l'importante ritorno discografico di Carolyne Mas. Artista poco fortunata, però, che non ha mai raccolto in termini di popolarità quanto seminato in quegli anni (fine settanta, primissimi ottanta) di fervente attività musicale in quel di New York, Greenwich Village e dintorni, in compagnia di amici quali Steve Forbert, il già "troppo famoso" Bruce Springsteen ( a cui spesso venne paragonata), Willie Nile (la sua carriera discografica è pressoché identica a quella di Carolyne) e tanti altri musicisti famosi e minori che popolavano quelle strade e locali, solo di passaggio o vivendoci notte e giorno. Tutti artisti e amici che la Mas omaggia in questo disco che ha visto la luce, dopo sette anni di assenza, grazie ai suoi sempre più frequenti contatti in Italia-ora come ora, la sua seconda patria-l'interessamento di Ermanno Labianca che produce e la accoglie a Roma nel roster della sua etichetta discografica Route 61, e i musicisti coinvolti: Piergiorgio Faraglia (chitarre), Andrea Lupi (basso), Lucrezio De Seta (batteria), Gianfranco Mauto (tastiere), Marco Valerio Cecilia (cello) e Joe Slomp (cori) . Un disco che ripercorre la carriera, ci fa rivivere il fermento creativo della città di New York dell'epoca, tra sentiti omaggi, riletture autografe, ripescaggi di inediti rimasti nel cassetto e vecchi ricordi di vita che affiorano nitidi: amori ed emozioni messe in musica, non più con il piglio e l'energia rock che la contraddistinsero in gioventù ma con il calore di una voce fattasi soul, adulta, ancor più graffiante e vissuta (con le sue "brutte" e tormentate cicatrici), piena di sfumature e calorosamente avvolgente che tocca l'apice nel finale, lungo i dieci intensi minuti di New York City Serenade, proprio quella che Bruce Springsteen ha suonato, a sorpresa, quest'anno a Roma con l'accompagnamento di un'orchestra completa-per la prima volta in Italia-rivisitata privandola della sua magniloquenza musicale e rivestendola invece di sola voce e pianoforte che non scalfiscono nulla dell'originale intensità ma facendo guadagnare in penetrante efficacia, un ricordo dei suoi primi passi musicali nei piano bar e del primo incontro con quello che diventerà suo marito. Anche così, rimane sempre una canzone da pelle d'oca.
Prima di arrivare qui, bisogna passare attraverso un'alta girandola di emozioni in musica che la voce della Mas porta verso altissime vette, facendosi bastare la sola voce come avviene nell'apertura Dizzy From The I-IV-V in versione a "cappella", una chitarra folk ed un hammond (suonato da Luciano Gargiulo) nella rilettura di Witch Blues di Steve Forbert; sia con il parco contorno del  fedele pianoforte come succede in In A Box per la prima volta su disco e originariamente scritta per un musical teatrale, e nella title track Accross The River, vecchio brano di Willie Nile contenuto nello strepitoso esordio del piccolo "grande" songwriter di Buffalo del 1980. Gioca, si diverte con la voce tra i vocalizzi scat che ricamano una strepitosa Sittin' In The Dark scritta nel 1978 insieme a David Landau; modula e ammalia nella swingata, jazzata e notturna That Swing Thing; intrattiene e diverte riproponendo Under The Boardwalk dei Drifters, memore  di ascolti adolescenziali; graffia in So Hard To Be True, un battente blues con l'intervento di Daniele Tenca e la sua band; e fa sognare nell'evocativa ipnoticità di Mexican Love Song.
Un disco che emana calore umano e passione dalla prima all'ultima nota, avvolge e mi fa ritrovare quella bellezza in musica rimasta per troppo tempo sopita. Con il grande- e raro-pregio di quei dischi che ti fanno capire immediatamente quanta parte di cuore l'artista ci abbia lasciato dentro e quanta parte del nostro possiamo ritrovarci: in entrambi i casi, tanta. Fatevi un regalo.





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