giovedì 29 agosto 2013

RECENSIONE:LUCA MILANI (Lost For Rock'n'Roll)

LUCA MILANI    Lost For Rock'n'Roll  (Hellm Records, Martine Records/IRD 2013)


Quante volte ci siamo aggrappati al Rock'n'Roll? Attaccati alla funzione salvifica che gli attribuiamo  molto volentieri nei momenti più difficili, quasi fosse un vecchio e saggio compagno a cui affidare segreti, sogni, istinti di rivincita e riceverne in cambio conforto, con il "piacevole" rischio di farlo diventare la colonna sonora portante di tutta un'esistenza. Vorrebbe dire che la vita è fatta per gran parte di sofferenza. Il già "salomonico" Rock'n' Roll, invece, regge il peso  delle responsabilità e ti tira fuori dai guai. Funziona, quasi sempre. Ci si aggrappa a degli accordi, al ritmo, a delle chitarre, ad un testo, ai propri idoli che cantano e capiscono, meglio di qualunque altro, la nostra vita d'inferno in terra. Molte volte, la nostra vera religione. Il Rock 'n' Roll ce l'hanno cantato in tanti modi, decantandone la sua indispensabile funzione ed eternità: chi lo ha inventato, già con lungimiranza, ne cantava la superiorità a passo d'anatra con una chitarra a tracolla, chi gli augurava lunga vita sotto colorati arcobaleni hard, chi, con un flauto in mano, diceva di essere troppo vecchio per le chitarre ma troppo giovane per morire, chi tra morsi a indifesi volatili ne cantava l'immortalità e chi faceva la stessa cosa perso nel profondo buio, sentendosi-qualche anno dopo-anche un po' prigioniero in un mondo libero, "mani lente" su corde di chitarra che ci si foderavano il cuore, pietre rotolanti che ci riportano con i piedi in terra, dandone la migliore definizione possibile ed incastrandolo dentro alla giusta importanza (forse). La lista potrebbe andare avanti all'infinito. Ci si può perdere. Luca Milani si è perso come noi tutti e lo racconta attraverso dieci tappe di vita con il cuore libero ma scalpitante, sincero e verace.
Il cantautore milanese, al terzo disco dopo il buonissimo Sin Train (2011) e l'EP Scars And Tattoo (2009), lo canta nella title track così vicina al John Mellencamp di Human Wheels, e il sogno di rock'n'roll diventa una canzone da cantare fino alla fine della vita, fino all'inferno, più forte di tutte quelle brutte circostanze che sembrano inghiottirci e aver sempre la meglio, con le chitarre a scuotere ed un tappeto di hammond ad addolcire.
Milani riprende in mano la chitarra elettrica che ha segnato i suoi esordi nel gruppo File, e seppur lasci l'apertura del disco alla sommessa intimità folk urbana di On A Saturday Night, amara e greve riflessione sul trascorrere del tempo (qui, tra le tante cose, richiede indietro un concerto dei The Clash, a proposito di sogni di R'n'R), si lancia in fulminanti affreschi di blue-collar rock  chitarristici, sudati e fumanti, nati ai margini della città (la sua Milano) che pagano dazio tanto alla poetica di strada di eroi come Bruce Springsteen e Willie Nile, quanto al miglior alternative punk/rock americano degli eighties (Social Distortion, Replacements, Raindogs) nell'energia sparata a tutta full band ( Giovanni Calella al basso e steel guitar, Luca Capasso alla batteria, Riccardo Maccabruni al piano) pur persa in momenti intimistici (Demons Inside), di speranza e rivincita (Second Chance); sia avvicinandosi ai Pearl Jam dell'amata scena grunge nella epica Party Dress, che alle ultime leve yankee come Jesse Malin (Silence In This Town) e Gaslight Anthem in Dust And Wind tra passi di vecchio rockabilly, armonica, pistole e amori.
Il vento che soffia forte su un' armonica e l'attacco di Dog in The Fog, viaggio con il piede pesante sull'acceleratore in fuga da nostalgie e illusioni alla ricerca dell'isola felice, mettono in risalto anche le zone d'ombra acustiche che riportano al precedente disco: gli amari addii dentro alla scheletrica costruzione sorretta da pianoforte e armonica di In The Wind, e nella finale Bar At The End Of The World per sola voce e chitarra.
Un disco sincero, secco, grigio ma ricco di colori di speranza; riflessivo e amaro in cui ci si perde volentieri da quanto ci si immedesima. E' rock'n'roll!
In uscita il 24 Settembre, sarà presentato live a partire dalla metà dello stesso mese. Ad accompagnare Milani: i Glorious Homeless, gruppo formato da alcuni membri dei Mojo Filter, protagonisti di questo inizio anno con il loro The Roadkill Songs.




vedi anche RECENSIONE: MOJO FILTER-The Roadkill Songs (2013)



vedi anche RECENSIONE: CESARE CARUGI-Pontchartrain (2013)



sabato 24 agosto 2013

RECENSIONE: TEDESCHI TRUCKS BAND (Made Up Mind)


TEDESCHI TRUCKS BAND  Made Up Mind (Masterworks/Sony, 2013)


Basta poco per capire che Made Up Mind, seconda prova in studio del gruppo dei coniugi Derek Trucks e Susan Tedeschi, ha un passo decisamente superiore al pur multi premiato debutto Revelator uscito nel 2011. Bastano i primi trenta secondi della title track per capirlo, e non perché questa sbuffi più del solito come una locomotiva priva di freni nel suo circolare boogie blues a carattere evangelico-tra le undici canzoni è la traccia più prossima al rock insieme alla torrenziale The Storm che cita l'uragano Sandy prima di sfociare nelle jam finale con la chitarra di Trucks che s'infiamma-ma perché simboleggia perfettamente l'affiatamento acquisito con il tempo, la raggiunta consapevolezza di riuscire a trattare la materia con piglio autoritario ed un amalgama di squadra sublimato durante i concerti (e impresso su Everyboy's Talkin'-2012) e che il precedente disco lasciava solo intravedere. La simbiosi perfetta tra il talentuoso chitarrista, figlio d'arte già in scena con i riflettori puntati a soli dieci anni d'età e già nel mito solo per far parte del "mito" Allman Brothers Band ma anche con sei dischi sul groppone incisi con la prima incarnazione della band a suo nome, e la vocalità della cantante che finalmente esce in modo prepotente anche grazie al supporto di una super band ampliata di otto elementi (più una pletora di bassisti ospiti) che dalle retrovie tiene sempre accesa la candela, ricordando a più riprese le grandi famiglie musicali allargate degli anni settanta, da Delaney e Bonnie ai Mad Dogs di Joe Cocker. Due batteristi, uno per cassa, sezione fiati sempre presente, ed il gioco è fatto. "Quando è stata l'ultima volta che avete passato una serata in compagnia di undici persone di vostra conoscenza? Che non sia un matrimonio o un funerale. O un compleanno. O una riunione di lavoro". Così Mike Mattison, (ex?) cantante della Derek Trucks Band e solo corista qui (purtroppo), inizia la presentazione del disco nelle note introduttive del libretto, sottolineatura per ribadire quanto il gruppo abbia raggiunto l'amalgama e l'equilibrio perfetti.
La nota di maggior rilievo arriva dalla voce della Tedeschi che senza alzare troppo i toni, conduce a proprio piacimento l'andamento prevalentemente melodico e soul che avvolge un disco che preferisce fare sosta alla fermata con il cartello recante la scritta Memphis: dalle atmosfere R&B, doo-wop, ariose e assolate di Part Of Me cantata in coppia con il trombonista Saunders Sermons che incanta grazie allo splendido ed evocativo falsetto, alla melodica Idle Wind dove un dolce flauto jazzato suonato da Kofi Burbridge serpeggia e dispensa oniricità tra le trame leggere e sognanti di una chitarra acustica, il funk di Misunderstood, il dolce soul di Sweet And Low, o la finale e acustica Calling Out To You suonata e cantata unicamente dai due, a sancire-romanticamente-l'unione famigliare e il matrimonio musicale, e già li si immagina interpretarla seduti fianco a fianco sopra a due sgabelli durante i concerti.
Registrato a Jacksonville, prodotto dallo stesso Trucks insieme a Jim Scott, e scritto insieme a numerosi autori/amici tra cui spicca Gary Louris (la già citata Idle Wind, il southern/funk Whiskey Legs), Made Up Mind avvolge nella forza della compattezza dei testi intrisi di amore e fede religiosa (It's So Heavy) che solo gli sparsi assoli slide di Trucks interrompono per l'estrema goduria delle orecchie-si ascolti All That I Need per lo strappo e la sontuosa Do I Look Worried per il ricamo. Un disco impeccabile, suonato in totale libertà. Creato e registrato, con la gioia e la devozione necessarie, da persone nate già con le note musicali che nuotavano libere nel sangue per raggiungere gli ascoltatori amanti delle trasfusioni di buona musica, quella senza tempo e scadenza.



vedi anche RECENSIONE/REPORT live THE BLACK CROWES live@ Alcatraz, Milano, 3 Luglio 2013



vedi anche RECENSIONE: SEASICK STEVE-Hubcap Music (2013)





vedi anche RECENSIONE: GUY CLARK-My Favorite Picture Of You (2013)




vedi anche RECENSIONE: THE WHITE BUFFALO-Shadows, Greys & Evil Ways
(2013)


giovedì 22 agosto 2013

RECENSIONE: NERA LUCE (Ad Occhi Chiusi)

NERA LUCE  Ad Occhi Chiusi (autoproduzione, 2013)



Vi ricordate la scena rock italiana della prima metà degli anni novanta? Una marea di gruppi con qualcosa da dire che erano riusciti ad elevare la lingua madre per comunicare, quasi fosse una sfida. I buoni esempi non mancavano nemmeno negli anni ottanta, ma il virus dilagò in maniera esponenziale nel decennio successivo. Testi in italiano dentro a trame musicali di rock anglofono, un connubio quasi impensabile e che iniziò a funzionare a pieno regime, una variegata scena che non si è mai più ripetuta a quei livelli. Con qualche rimpianto. Molte di quelle band hanno lasciato il segno, qualcuna è sopravvissuta, qualcuna è entrata nei circuiti mainstream che contano, tante sono scomparse velocemente, altre sono già entrate nel culto. C'era veramente di tutto: il rock "stonesiano" (i primissimi Negrita), il crossover (i memorabili Ritmo Tribale di "Tutti Vs.Tutti", i Casino Royale di "Dainamaita", Rapsodia, Bisca), il grunge (Karma), l'hard rock (Movida), l'hardcore punk (gli ultimi respiri dei Negazione), il thrash metal (In.si.dia), il rock e...basta (Timoria, la seconda parte di carriera dei Litfiba, Rats, Clandestino), l'alternative (C.S.I., Disciplinatha, Massimo Volume, Marlene Kuntz, Afterhours, Santo Niente, Malfunk). Ecco, ascoltando i Nera Luce, gruppo proveniente da Catanzaro, mi è tornata in mente quella scena musicale tanto prolifica quanto breve nella durata che ho vissuto in prima persona da ascoltatore, con tanto piacere. Alcuni di quei gruppi  rivivono tra le dodici canzoni dei calabresi che non sembrano voler cavalcare nessuna moda finta o passeggera, facendosi bastare l'amore, l'onestà e la passione per alcune sonorità che hanno adorato e con le quali sono cresciuti musicalmente: dal grunge alla Alice In Chains (o Karma se si vuole restare in Italia) di Ultima Ora e della atmosfericamente acida Ombre, al rock'n'roll in stile Miura di Bambola, al veloce riffing distorto e metal di Istantanee, al crossover di La Voglia Nascosta, Ad Occhi Chiusi, a quello con inserti funkeggianti di La Mia Confidenza insieme all'ospite Gray ("... la mia confidenza è un lusso che non meriti..."), al pungente folk/hip hop elettrico di Taranta Violenta con il duo Eman e Kuanito. Fino ad allargare la loro forbice di azione-a volte un po' troppo, in verità-, toccando i lidi pop in episodi più leggeri come Settembre vicina ai primissimi Timoria e a Francesco Renga solista, nella ballata dall'intro arpeggiato e dal bel assolo di chitarra Il Tuo Soffrire e nella lenta e pianistica Domani con la presenza di Paola Cortese alla seconda voce.
Il gruppo-formato da Luigi Persampieri alla voce, Danilo SpanòDanilo  Ferragina alla chitarre, Giuseppe Galati alla batteria e Giuseppe Bisurgi al basso-è nato nel 2002 ed è al secondo lavoro (il primo Luci Nell'Ombra uscì nel 2010 per l'etichetta FermentiVivi/Edel). Nel curriculum live può vantare alcune aperture prestigiose e di tutto rispetto per svariati artisti internazionali ed italiani: da mitico "fratello" Dave Alvin dei Blasters a Piero Pelù, la partecipazione al Pistoia Blues Festival edizione 2007 nella stessa giornata di mostri sacri come Patti Smith e Jeff Beck, fino ai terremotanti Bachi da Pietra.
Sarò nostalgico ma, anche con la mano e l'aiuto di un buon produttore, i Nera Luce potrebbero riportare a galla una scena rock ed un periodo di cui ho sentito seriamente la mancanza in questi ultimi quindici anni di musica rock italiana.

vedi anche RECENSIONE: NO GURU-Milano Original Soundtrack (2010)



vedi anche RECENSIONE: BACHI DA PIETRA-Quintale (2013)



vedi anche RECENSIONE: REGO SILENTA- La Notte è suo agio (2013) 





lunedì 19 agosto 2013

COVER ART# 6 : BOB SEGER (Against The Wind-1980)

autore: BOB SEGER
titolo: AGAINST THE WIND
anno: 1980
disegno: JIM WARREN
art direction: ROY KOHARA
canzoni da ricordare: Her Stut, No Man's Land, Against the Wind, Fire Like

Una delle ultime copertine create dal sessantaquatrenne artista californiano Jim Warren è stata Horses and High Heels(2011) di Marianne Faithfull . Nel disegno campeggia un cavallo immerso in un panorama naturale da paradiso terrestre, dove spiccano due scarpe rosse da donna con lunghi tacchi.
I cavalli, nelle opere di Warren, sono spesso presenti. Ma non è stato sempre così, e la colpa-o merito- è di Bob Seger.
Warren racconta che nel 1979 spedì alcune foto dei suoi dipinti al direttore artistico della Capitol Records, alla ricerca di qualche collaborazione di lavoro con il mondo musicale. Dopo due settimane non aveva ancora ricevuto risposte e, scoraggiato, la prima cosa che pensò fu che i suoi disegni avessero preso la via poco romantica e remunerativa della spazzatura.
La grande sorpresa arrivò un anno dopo. Il direttore della Capitol si fece vivo proponendo a Warren la copertina per un disco di Bob Seger che però doveva avere come soggetti dei cavalli. Warren cercò di opporsi a quella richiesta, giustificandosi con il fatto che non aveva mai disegnato cavalli nelle sue opere. Insomma, non erano il suo "cavallo" forte d'artista. Alla fine, l'offerta era talmente allettante che cedette, disegnando la copertina che tutti conosciamo.
Passò un altro anno, Against The Wind nel frattempo raggiunse il primo posto nella classifica dei dischi più venduti, fu la prima volta per Seger. Against the wind fu un album diverso dai precedenti per il rocker del Michigan.
Quei cinque cavalli selvatici e liberi di correre contro vento immersi nell'acqua che ne proietta le ombre in avanti, rendendoli ancora più veloci, rappresentavano benissimo un disco che, grazie alle parole della stupenda title track, esorta a ritrovare se stessi dopo cocenti delusioni. La speranza è l'ultima a morire. C'è sempre un nuovo inizio."Bene, ora ho superato quei giorni movimentati/Adesso ho molte più cose a cui pensare/Scadenze e consegne/cosa lasciare e cosa tralasciare/Controvento/Sto ancora correndo controvento/Ora sono più vecchio, ma sto ancora correndo/Controvento".
Un disco che all'epoca fece storcere il naso ai devoti fan di Seger per via della leggerezza musicale che prendeva il sopravvento, forse più leggero rispetto al recente passato (il trittico Beautiful Loser, Night Moves, Stranger In Town rimane ineguagliabile), ma che comunque riusciva a mantenere intatte le caratteristiche del suo autore che non mancò mai di tesserne le lodi, considerandolo uno dei suoi migliori lavori di sempre. Against The wind rimase l'ultimo vero guizzo, la chiusura della prima parte di carriera. Gli anni ottantta, appena iniziati, porteranno pochissima gloria.
Nel 1981 il telefono bollente di Warren squillò un'altra volta. Dall'altra parte una voce lo informava con un assordante "Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!!". La sera prima si svolse il Grammy Award e Against the Wind vinse il premio per la migliore copertina dell'anno. Warren, che quella sera non guardò la televisione, cascò dalle nuvole. Sarà lui stesso a raccontare la morale di tutta questa storia: proprio lui che non aveva mai disegnato un cavallo in vita sua, da allora non smise più di disegnare equini. Ora sì, sono il suo piatto forte d'artista!


vedi anche COVER ART # 4: NEIL YOUNG- On The Beach (1974)




vedi anche COVER ART # 5: AMERICA- Homecoming (1972) 



 

venerdì 9 agosto 2013

RECENSIONE:ALICE IN CHAINS (The Devil Put Dinosaurs Here)

ALICE IN CHAINS The Devil Put Dinosaurs Here  (Virgin/EMI, 2013)

"La nostra musica è un gigantesco ed efficace atto di esorcismo nei confronti di tutto quello che non amiamo o che finirebbe per portarci nella tomba...". Fa un certo effetto rileggere questa dichiarazione estrapolata da una vecchia intervista apparsa su HM nel Marzo del 1993, alla luce di quello che successe il 5 Aprile 2002, quando Layne Staley raggiunse il fondo di quell'abisso che lo accompagnò per tutti i suoi (soli) 35 anni di vita.  Qualcosa non deve aver funzionato a dovere. Gli Alice In Chains hanno nuotato in acque torbide negli anni novanta, il loro disco di maggior successo commerciale, Dirt (1992), fu la ricetta  per esorcizzare tutto ciò, premiata anche dalle vendite, ma nulla potè per depurare l'acqua, che anzi via via si fece sempre più nera e inzaccherata, preferendo seguire il pericoloso percorso scavato dal loro cantante. Gli Alice In Chains di oggi, però, vivono nel presente, Jerry Cantrell continua a ribadirlo a più riprese: non amano girarsi troppo indietro e già lo hanno dimostrato con Black Gives Way To Blue, il loro buonissimo ritorno di quattro anni fa. Continuano a camminare per la loro strada, lasciando ai critici il compito di nominare il nome di Layne Staley una volta su tre in cerca di paragoni (impossibili e deleteri). C'è la voglia di sotterrare i ricordi negativi (quelli pesanti, vissuti in prima persona) ma c'è anche la difficoltà nel farlo completamente; quelli che hanno segnato profondamente le liriche rimangono a dare l'imprinting della loro musica, lasciando solamente alle canzoni il compito di parlare, un po' come se la copertina di Dirt rappresentasse il loro status odierno: un po' dentro, un po' fuori da quelle sabbie. Se in questo momento dovessi scegliere la mia band preferita tra quello che ci è rimasto delle "big four" nate a Seattle negli anni '90, non avrei dubbi nel puntare su Jerry Cantrell e soci, con i Nirvana fuori dai giochi, ma soprattutto dopo la mezza delusione della reunion dei Soundgarden concretizzatasi con l'insipido e "mestierato" King Animal, ed i Pearl Jam ancora fermi al poco ispirato Backspacer(2009), puro esercizio di routine che dura da troppo tempo, anche se un nuovo singolo "punkettone" è stato lanciato in questi giorni per dare il benvenuto al nuovo album in uscita a fine anno.
William DuVall, poi, mi sta simpatico a pelle, si sta dimostrando un cantante-e chitarrista-con una personalità propria e vincente, capace di tenersi alla larga dai possibili paragoni con l'illustre, inarrivabile, e maledetto predecessore, anche se gli spazi sembra che debba guadagnarseli con il tempo e le unghie ben affilate. E sappiamo tutti quanto il cambio del cantante in una band sia sempre faccenda delicata, costruita su complessi equilibri interpersonali. La verità è che la band di Seattle sembra molto più compatta oggi di allora (sempre con Mike Inez al basso e Sean Kinney alla batteria), complice la maturità e l'esperienza.
The Devil Put Dinosaurs Here è un disco che avanza con lentezza ipnotica fin dall'apertura Hollow, un pesante monolite, sludge fino al midollo, acido negli assoli, con le classiche armonie vocali che li hanno resi riconoscibili ed unici a caratterizzarne l'impronta, ma anche con i fantasmi del passato che fanno spesso visita come nella allucinogena circolarità di Pretty Done, nella pesantezza di Phantom Limb, nella lenta marcia Hunk On A Hook, nella sabbathiana Stone, nella teoria anti-darwiana di The Devil Put The Dinosaurs Here che dà il titolo al disco ed è sviscerata su un arpeggio sinistro e cangiante lungo i sette minuti, diventando la canzone più lunga e strutturata del disco, nella claustrofobica Breath On A Widow che ci regala un bel assolo di Cantrell.
Nei quasi settanta minuti di durata totale, invece, c'è anche il tempo per la più leggera Voices, brano a presa immediata, per l'acustica Scalpel, quasi un dark country figlio del loro vecchio lavoro acustico Jar Of Flies (1994), fino alla malinconica chiusura acustica e corale Choke con l'assolo finale che chiude un disco che gira intorno all'eccellenza e alla buona vena ispiratrice di Cantrell, illuminato da nuova luce positiva.
Sicuramente mancano: sia l'ipnotica magia (nera), che la malattia vissuta sulla propria pelle come in passato, anche solo i pezzi da ricordare come una California (presente nel precedente album), ma il disco marcia in avanti, compatto, senza mai girarsi indietro con la testa, facendosi bastare un occhiolino furtivo al già accaduto, quasi il povero cane raffigurato sulla copertina di Aliche In Chains (1995)-Tripod-, ultimo album con Staley, avesse ritrovato l'equilibrio con la ricomparsa della quarta zampa, mancante da quel lontano 1995.





vedi anche RECENSIONE: BLACK SABBATH-13 (2013)




vedi anche RECENSIONE: QUEENS OF THE STONE AGE-...Like Clockwork (2013) 





vedi anche RECENSIONE: THE WINERY DOGS-The Winery Dogs (2013)