giovedì 30 maggio 2013

RECENSIONE:JJ GREY & MOFRO (This River)

JJ GREY & MOFRO  This River ( Alligator Records, 2013)



Se foto e video fossero una rarità almeno quanto lo erano cinquant'anni fa, difficilmente scoprireste con facilità che dietro al nome di JJ Grey & Mofro si nasconde un bianchissimo artista di Jacksonville (Florida), in pista da almeno quindici anni con sette dischi già all'attivo ed una solidissima e proficua attività live, tanto il suono che esce dalle casse, sparato rigorosamente a mille, è carico di attitudine black, soul, R & B, funk alla James Brown, Earth Wind & Fire, Sly And The Family Stone ma contenente anche tracce del miglior Prince & The Revolution, sonorità incalzanti e contagiose che prendono forma però dalle solide e umide radici southern blues per poi impossessarsi, in pochi secondi, di psiche e fisico. Roba calda, umida, sudata che fa bene all' anima e che elettrizza il corpo. Sono qui a godere di una domenica di sole, innaffiata da bicchieri di birra, stordito e inebriato da luppolo e musica, con le gambe che scalciano e la strana sensazione che mi manchino solo due remi per affrontare senza paura alcuna le strette vie d'acqua che attraversano lagune e paludi. Provate a rimanere impassibili di fronte all'iniziale, viziosa e travolgente Your Lady, She's Lady: se ci riuscite, toccatevi immediatamente il polso, avete qualcosa d'importante che sta perdendo colpi dentro voi.
Il quarantaseienne JJ Grey naviga il grande fiume (trattasi del St.John's River che scorre vicino alle sue terre, il più lungo della Florida) con il favore delle pigre correnti e con gli spettri dei Muscle Shoals Studio seduti di fianco tanto le dieci tracce scivolano viziose e ammorbanti, scaldate dal calore dei fiati e con la sicurezza dettata da una infanzia trascorsa tra l'abbraccio di una tipica famiglia del sud tutta duro lavoro e preghiere, dalla forte connessione con i luoghi che ama-e mai ha abbandonato- e una coscenziosa visione dell'introspezione umana che si riversano sulla sua buona scrittura. Voce passionale e soul (Somebody Else, Write A Letter), roca all'occorrenza nei momenti più rock (Standing On The Edge, 99 Shades Of Crazy) e una band allargata che con il tempo ha trovato la sua connotazione attuale (Andrew Trube alle chitarre, Anthony Farrell al piano, Tod Smallie al basso, Anthony Cole alla batteria, Art Ed maiston e Dennis Marion ai fiati) che spinge al massimo nei travolgenti funk di Harp & Drums e nella appiccicosa ed evocativa Florabama ("riesco a sentire la brezza del Golfo del Messico/ci sarà una festa stasera a Florabama") e rallenta pigramente nelle ballate strappa budella come la biografica storia di emarginazione di The Ballad Of Larry Webb con un 'evocativa slide a ricamare melanconia o la finale, bellissima e cullante This River, totale dichiarazione d'amore verso i suoi luoghi, rifugi sicuri da tutto il mondo impazzito che ruota intorno ("cercando di dare un senso all'assurdità che chiamo vita/ perchè solo questo fiume mi da sicurezza/solo questo fiume può portarmi lontano").
Io, intanto, mi rifugio ancora per qualche minuto in questo disco.




vedi anche RECENSIONE: JOE LEWIS & THE HONEYBEARS-Scandalous (2011)



vedi anche RECENSIONE: W.I.N.D.-Temporary Happiness (2013)




vedi anche RECENSIONE: MARK LANEGAN & DUKE GARWOOD-Black Pudding (2013)



vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)




vedi anche RECENSIONE: TEDESCHI TRUCKS BAND-Made Up Mind (2013)



lunedì 27 maggio 2013

COVER ART #5: AMERICA (Homecoming-1972)


artista: AMERICA
album: HOMECOMING
anno: 1972
fotografo: HENRY DILTZ
art director: GARY BURDEN
canzoni da ricordare: Ventura Highway, Don't Cross the River, Only in Your Heart

Dal divano in veranda di Crosby, Stills & Nash alla vetrata del Morrison Hotel dei Doors, passando per Jackson Browne e Eagles, la firma del fotografo americano (e musicista- suonò il banjo in questo album) Henry Diltz ha attraversato la California più viva ed ispirata degli anni settanta. La sua macchina fotografica ha immortalato il periodo d'oro della west coast music americana.
Il connubio tra il fotografo e il trio iniziò da questo album, passando attraverso i successivi Hat Trick (1973), Hearts (1975), Alibi (1980) e continua ancora oggi. Homecoming è un esempio riuscito di quanto un'immagine riesca a raccontare e spiegare l'immaginario artistico di una band più di tante parole, nascondendo, tra le pieghe della sua realizzazione, anche una beffarda ed ironica conclusione.
La cover di Homecoming vanta almeno due grandi primati: fu una delle copertine più costose che la Warner Bros dovette finanziare per un proprio artista, e fu una vera innovazione nel formato packaging del vinile, in quanto l'immagine copriva ben tre facciate intere di cartone. La sua realizzazione, sebbene non sembri a prima vista, non fu delle più semplici e mise a dura prova il gruppo.
Le cronache narrano di una nutrita comitiva in partenza alla ricerca dello scatto perfetto. Comitiva formata dai tre America (Dewey Bunnell, Gerry Beckley e Dan Peek) reduci dal buon debutto che includeva la loro maggiore hit A Horse With No Name, l'art designer (collaboratore di Diltz) Gary Burden, uno dei più grandi creatori di copertine degli anni settanta, conosciuto soprattutto per la sua collaborazione con Neil Young, ed il fotografo Henry Diltz, appunto.  I cinque partirono da Los Angeles con una macchina presa a noleggio, percorsero tutta la costa per raggiungere Big Sur, regione della costa centrale della California, dove sequoie e cactus convivono felicemente ed il panorama che si può ammirare, percorrendo la Highway 1, è tra le cose più belle che si possano vedere negli USA.  Vicino, sorge anche l'associazione/comunità Esalen-sorta nei primissimi anni '60, dal nome di una vecchia tribù indiana-, dove si può praticare meditazione, massaggi, yoga, tutto nel rispetto assoluto della natura (le case in legno sorgono a strapiombo sull'acqua dell'oceano) e totale immersione nella spiritualità.
Cinque giorni di viaggio che li portarono là dove il panorama offre la splendida visione dei monti rocciosi che calano a picco sull'oceano. Uno posto suggestivo e spettacolare che diventa magico durante certe ore del giorno e della notte, quando sole e luna si specchiano sull'oceano e il cielo si colora di mille sfumature. Servirono ben tre giorni insonni di pose e appostamenti per catturare lo scatto perfetto, ma mancava ancora qualcosa: una foto che completasse l'opera e che riuscisse a dare all'intero lavoro il particolare significato prefisso.
All'interno della copertina un altro scatto ritrae gli America immersi nella Redwood Forest, parco nazionale statunitense sempre in California, in mezzo alle sequoie più alte del mondo. Foto che voleva trasmettere un messaggio ecologico e celebrare la natura unitamente alla front cover, dove sulla destra si poteva anche notare -in lontananza- un solitario indiano a cavallo (ispirato dal logo della Brother Records, etichetta dei Beach boys) inerme davanti ai palazzi di una moderna città che si alzano persi nell'orizzonte.
Anni dopo, nella sua autobiografia An American Band, uscita nel 2004, "il terzo America" Dan Peek (uscito dal gruppo nel 1977 e scomparso recentemente nel Luglio del 2011 all'età di  sessant'anni ) raccontò di quanto il gruppo, solo successivamente, si accorse che il  messaggio ecologista che le foto volevano far risaltare, contrastava e cozzava con l'alto numero di alberi che furono sradicati per stampare la "sontuosa" e famosa copertina a tre ante di Homecoming. Errori di gioventù. Anche se l'intenzione fu premiata con il successo di uno dei migliori album della band.


domenica 26 maggio 2013

RECENSIONE: WOLF PEOPLE (Fain)

WOLF PEOPLE   Fain  (Jagjaguwar, 2013)


I londinesi Wolf People hanno un rifugio sicuro, lontano dai vizi, rumori e tentazioni cittadine che amano abitare quando l'ispirazione chiama: è un vecchio casolare del diciassettesimo secolo sepolto tra le ragnatele di rami del bosco e il verde delle campagne che lo circondano, situato nel profondo Yorkshire in Galles. Come avvenuto per il buon debutto Steeple del 2010, anche il nuovo album Fain ha preso forma lì, dove  i fantasmi dei grandi gruppi albionici del passato giacciono e ispirano mentre il tipico tempo piovoso britannico ti costringe a coabitare con l'umidità che penetra tra le vecchie mura di pietra, combattuta al tepore di un caminetto sempre acceso. Vista così è inevitabile che tornino alla mente dejà vu seventies animati da un folto gruppo di band come Jethro Tull, Traffic, Fairport Convention, Amazing Blondel, Pentangle, Trees, Wishbone Ash, ma non solo.
Tutto il buono del debutto e della positiva impressione che mi fecero in concerto quando passarono per Torino-due anni fa-a bordo del loro piccolo furgone bianco "da tour", sono confermati in canzoni a ventaglio, stratificate, che sanno aprirsi di volta in volta verso territori musicali sempre differenti senza seguire strade impostate e lasciando l'estro compositivo libero di spaziare tra i generi, creando delle piccole e cangianti suite: il folk-prog di All Returns, dove le foglie secche di un autunno inoltrato vengono innalzate dal vorticoso vento generato da squassanti inserti di chitarre fuzz, l'inizio acustico di Hesperus che si sviluppa in un lento progressive psichedelico per poi chiudersi tra i fuochi d'artificio delle chitarre che si scontrano come già insegnato a suo tempo dai Whishbone Ash e con gli assoli del bravo Joe Hollick ( completano la formazione il bassista Dan Davies e il batterista Tom Watt).
When The Fire Is Dead In The Grate prende forma invece dalla umida terra del blues bianco di Groundhogs, Cream e Peter Green ed è recitata dalla voce, che sembra arrivare da secoli lontani, del cantante e chitarrista Jack Sharp, amplificata da inserti di cori femminili, per progredire in una lunga coda psichedelica nel finale, fino ai momenti più hard e psichedelici (Athol, Thief) con le chitarre che si inspessiscono nella conclusiva NRR, toccando la pesantezza sabbathiana e guadagnandosi la palma del brano più pesante e diretto del disco, pur mantenendo l'imprevedibilità delle sei corde, libere di spaziare e viaggiare tra rallentamenti e ripartenze.
Su tutto il disco aleggia sempre e comunque una misteriosa (Answer) sospensione atemporale tra sogno ( Empty Vessels) e malinconica realtà, chiaro-scuri costruiti con meticolosa perizia strumentale atti a raggiungere sempre e comunque la crescente tensione e creare phatos.
Chi, a inizio anno, è impazzito per Coming Out The Fog degli Arbouretum potrà trovare piacere dalla proposta non convenzionale dei Wolf People, i loro continui cambi di atmosfera-anche se in rari punti sembrano parossistici e forzati, rischiando di avvolgersi su se stessi-tradiscono tutto il loro amore per un periodo musicale seguito senza mai cadere in banalizzazioni o ostentazione scenica ma con la giusta dose di umiltà che traspare in tutta la genuinità che potreste scoprire se avrete l'occasione di vederli anche dal vivo. Dei ragazzi disponibili, professionali e a modo. Certamente non delle rockstar, nemmeno indispensabili ma interessantissimi.






vedi anche RECENSIONE REPORT : WOLF PEOPLE Live Spazio 211, Torino 14 Maggio 2011



vedi anche RECENSIONE: ARBOURETUM-Coming Out The Fog (2013)



lunedì 20 maggio 2013

RECENSIONE: THE DEL-LORDS (Elvis Club)


THE DEL-LORDS  Elvis Club (Lakeside Lounge Records/GB Music, 2013)


L'inaspettata e fresca sorpresa di questa primavera arriva da una band che aveva strumenti e amplificatori silenti, impilati in un angolo, ma evidentemente ben conservati in garage da ben ventitrè anni. Tanti ne sono passati dall'ultimo disco di studio Lovers Who Wander. I newyorchesi Del-Lords, guidati dall'ex The Dictators Scott Kempner, tra il 1982 e il 1990- tempi duri ma ugualmente prolifici per il rock classico- hanno rappresentato più di una speranza mai sbocciata concretamente (solo 4 i dischi pubblicati) ma riuscendo a guadagnare sul campo quell'aura da culto che vale più dell'effimera gloria commerciale, solo sfiorata. In fondo, la dimensione "intima da club" si sposa alla perfezione con la loro musica rovente di passione, sudata e pericolosa come i loro quartieri al calar del sole. In questi anni d'assenza nessuno dei componenti è stato veramente con le mani in mano, tanto che li ritroviamo in perfetta forma, con qualche ciuffo ribelle volato via per sempre e un po' di chili a far peso, ma musicalmente sempre là dove li lasciammo nel 1990. Oltre al songwriter Scott Kempner (chitarra e voce), impegnatissimo sia come solista, che accompagnando l'idolo di una vita Dion DiMucci o presenziando alle varie reunion dei vecchi proto-punkers The Dictators, ci sono gli originali componenti Frank Funaro (batteria) e Eric Ambel ( ex Joan Jett And Blackhearts e ora produttore, alla chitarra e voce). Unico assente a questa reunion, che ha preso forma concreta nel 2010 dopo alcune date live (e l'EP Under Construction), è Manny Caiati, sostituito da Michael DuClos (basso)
Varrebbe la pena partire dal fondo del disco per capire quanto il quartetto sia ancora in grado di infiammare anima, cuore e dita sulle corde: la cavalcante Southern Pacific è una di quelle misconosciute canzoni di Neil Young nascoste in dischi poco decifrabili e dimenticati in fretta (questa era nell'hard oriented Re-Ac-Tor del 1981) che i Del Lords fanno viaggiare come un treno senza freni. Da riscoprire, anche l'originale.
Sembra essere cambiato veramente poco nella loro proposta musicale e l'unico segno di modernità potrebbe essere il retro copertina che ne ritrae i  faccioni dentro agli shermi luminosi dei loro smartphone. Le chitarre sferraglianti, tenute a bada solamente dalla saggezza del tempo, sono sempre in primo piano, ritornate per riprendersi la paternità di una scena varia, unica, genuina, irripetibile ma inspiegabilmente breve, condivisa con altri marchi di prima grandezza come Blasters, Del Fuegos, Green On Red, Dream Syndicate, Jason & The Scorchers, Replacements e fonte d'ispirazione per tutte le generazioni indie america
ne a venire fino ad arrivare ai successi odierni raccolti dai Gaslight Anthem. La ricetta è rimasta invariata: polvere di stelle rock'n'roll in puro '50 style  (Damaged), blue collar rock impreziosito dall'armonica (Flying), garage rock proletario (When The Drugs Kick In), melodiche reminescenze ramonesiane da CBGB (Princess), tirati e chitarristici hard/blues urbani (Me And The Lord Blues, You Can Make A Mistake One Time), ancora fresche e credibili ripetizioni della formula country/rock dei CCWR nelle brillanti ballate acustiche (Letter- UnmailedAll Of My Life, Silverlake), i '60 della corale Everyday scritta insieme a Dion DiMucci , la pungente ironia a tutta slide del lesto country/boogie Chicks, Man!.
Il ritorno dei migliori esponenti dell'American Graffiti targato anni ottanta non poteva che intitolarsi-tra nostalgia e riverenza-Elvis Club, titolo preso in prestito da una prostituta che, ai tempi d'oro, quando li incrociava per strada soleva domiciliarli dentro a questa definizione per via delle loro chiome. Elvis Club, un club esclusivo di cui i newyorchesi possono vantare la tessera onoraria e che conserva intatto, al suo interno, tutto l'immaginario rock a stelle e striscie che abbiamo sempre amato e sognato. Le luci dei lampioni lungo la Bowery Street si sono riaccese per un'altra notte.

vedi anche RECENSIONE: SEASICK STEVE-Hubcap Music (2013)




vedi anche RECENSIONE: ROD STEWART-Time (2013)




vedi anche RECENSIONE: MARL LANEGAN & DUKE GARWOOD-Black Pudding (2013)



vedi anche RECENSIONE: WILLIE NILE-American Ride (2013)



sabato 18 maggio 2013

RECENSIONE:MARK LANEGAN & DUKE GARWOOD (Black Pudding)

MARK LANEGAN & DUKE GARWOOD   Black Pudding (Ipecac Records, 2013)

Quando Mark Lanegan nutre stima incondizionata per qualche collega, non è così raro che questo "qualcuno" riesca ad incidere musica con lui. Il suo grande cuore, solo apparentemente chiuso a chiave, quasi impenetrabile, è invece sempre aperto e propositivo. A Duke Garwood, musicista e polistrumentisca londinese, sconosciuto ai più ma con quattro album all'attivo e tante buone collaborazioni nel carniere è riuscita l'impresa di registrarci anche un intero disco. "Uno dei miei artisti preferiti e una delle migliori esperienze di registrazione della mia vita." Non sono però le parole di Garwood rivolte all'indirizzo di Lanegan, ma-sorpresa-quelle di Lanegan che fa poco per nascondere il suo entusiasmo per il musicista che ha aperto numerose tappe dei suoi ultimi tour. Un incontro pianificato fin dal 2009 ma che ha visto la nascita concreta solo ora all'interno dei Pink Duck Studios di Burbank in California. Comunque, rimane ancora vero che anche chi nutre stima per la carismatica voce e talento dell'ex Screaming Trees molto probabilmente giochi carte false per ottenere una collaborazione, spesso ottenendola (buon ultimo, Moby). Sempre più difficile tenere il conto dei suoi contributi, meglio prepararsi al prossimo cameo presente nel disco di imminente uscita degli amici e compari Queens Of The Stone Age di Josh Homme.
Dopo l'ardito Blues Funeral, disco che ha spaccato in due critica e fan (a scanso di equivoci, è stato il mio disco dell'anno 2012), con Black Pudding gli esperimenti, almeno superficialmente, sembrano essere ridotti all'osso, ritrovando la greve voce del quarantottenne vocalist di Ellensburgh alle prese con spettrali folk/blues dai suoni scheletrici (Pentecostal, War Memorial), lenti (Death Rides A White Horse), liquidamente eterei (Driver), grevi (gli archi di Thank You) ma strumentalmente legati alla tradizione, a parte la batteria elettronica che accompagna i paesaggi desertici che si aprono in Mescalito e in Good Molly, l'unica canzone ad entrare in circolo fin dal primo ascolto grazie alla sua andatura up-tempo, funk e diretta con disordinati inserti di fiati a disturbare. La sensazione generale che si ha però, è che sia Garwood a condurre i giochi, dando per veritiera l'ammirazione di Lanegan. L'inglese apre e chiude il disco con due strumentali, le arpeggiate Black Pudding e Manchester Special-che un altruista Lanegan indica come le sue canzoni preferite dell'album-la sua chitarra fingerpicking, le atmosfere ortodosse del sitar, i profondi spazi minimali, algidi, desertici da notte fonda e ventosa, o orientaleggianti come in Sphinx, dove è racchiuso il mood di tutto il disco, con Lanegan a ricamare le parole delle sue liriche poetiche e fumose seguendo lo scarno mantra musicale costruito da Garwood, così come in Last Rung segue i glaciali tasti di un austero pianoforte, lasciando alle acustiche sperimentazioni del polistrumentista di impossessarsi dello spazio circostante.
Fino ad arrivare a Shade Of The Sun, con le tastiere messianiche di Alain Johannes a richiamare spettri e redenzione.
Unico appunto negativo per alcune canzoni sfumate troppo in fretta che danno l'impressione di frammentarietà e incompiutezza.
Il grande pregio del disco, che necessita di molti ascolti prima di entrare in vena e circolare pur sempre con passo meditativo e tormentato, sta tutto nella perfetta alchimia che i due musicisti sono riusciti a creare, alla ricerca di una sincera connesione d'intenti e intesa musicale a scapito di una bella produzione di facciata.
Un tunnel lungo, dolente e tenebroso. Se inizialmente incute timore nella sua impenetrabile oscurità, via via si fa misterioso, intrigante, fino ad intravedere l'uscita dove si stagliano le ombre pure e incontaminate dei due sfuggenti protagonisti. Ma ti assale la voglia di tornare all'entrata e riaffrontare i ricami in palude.


vedi anche RECENSIONE: MARK LANEGAN BAND-Blues Funeral (2012)




vedi anche RECENSIONE: MARK LANEGAN-Dark Mark Does Christmas 2012




vedi anche RECENSIONE: JASON ISBELL-Southeastern (2013)



martedì 14 maggio 2013

RECENSIONE: ROD STEWART (Time)

ROD STEWART   Time  (Capitol Records, 2013)

La notizia da prima pagina c'è: il ritorno ad un disco tutto suo (undici canzoni portano la sua firma pur se condivise con il co-produttore Kevin Savigar e tanti altri, Picture In A Frame  è una sentita cover di Tom Waits, l'unica, estrapolata da Mule Variations), cosa che non succedeva da anni, l'ultimo di inediti fu il bruttino Human del 2002, ma per trovare la sua firma consistente in calce alle canzoni bisogna addirittura arrivare a Vagabond Heart del 1991. Nel frattempo ci siamo sorbiti (per chi è riuscito ad ascoltarli tutti) una sfilza infinita di The Great American Songbook, cinque per la precisione, e altri svariati album di cover tra cui l'immancabile pastrocchio natalizio dove si permise di riesumare e cantare con la defunta Ella Fitzgerald (operazione discutibile). Il merito di questo ritorno alla scrittura è tutto dell'autobiografia Rod: The Autobiography uscita nel 2012: scavando tra i ricordi dei suoi primi 68 anni di vita è tornata la voglia di metterne qualcuno anche in musica.
Time, come lo stesso Stewart ha precisato, è uno dei suoi dischi più personali in carriera, che riesce a sviscerare dentro a ricordi lontani e intimi, mettendo in fila i primi amori, i due matrimoni falliti e il terzo in corso, le tante donne amate, la prima figlia avuta da giovanissimo e data presto in adozione, gli altri sette figli, il padre. Tutte cose estremamente personali.
Se da un lato è da elogiare la voglia di tornare a fare musica originale, dall'altro è difficile non notare un autocitazionismo musicale che purtroppo non sempre risulta riuscito: Sexual Religion è un numero dance/elettronico dimesso che rincorre stancamente la sua hit Do Ya Think I'm Sexy e tutti gli anni '80, ma purtroppo i tempi non sono più quelli di tutine e salti on stage, riuscendo anche a stonare con il resto del disco e a nulla serve l'inserimento di un assolo di sax, meglio il rock'n'roll/boogie chitarristico di Finest Woman, anche se sembra naturale associarla a vecchi pezzi come Hot Legs o Stone Cold Sober, nulla di nuovo, unica attenuante è che non si sentiva un Rod Stewart così da molto tempo. Che sia la prova generale verso le reunion (Jeff Beck Group, The Faces) che il buon "Rod the mod" ha in testa da un po' di tempo?
A parte queste parentesi, il resto del disco predilige tuffarsi nel folk/pop o meglio pop/folk, non così rootsy come una volta e nemmeno spartano e unplugged come il riuscito disco con Ron Wood del 1993 (l'ultimo grande disco di Stewart?), ma ricoperto da quel velo di patina modernista e arrangiamenti orchestrali "addolciti" sullo sfondo da far storcere il naso ai puristi e attentare la vita ai diabetici, ma che in fondo convince se, per una volta, ci si accontenta, premiando lo sforzo. Insomma, il vestito elegante della festa c'è ancora. Nessuna illusione.
She Makes Me Happy è un folk evoluto con violino e mandolino che rimandano inevitabilmente ai bei tempi di Maggie May e Mandolin Wind e dedica nemmeno troppo velata alla sua attuale compagna Penny Lancaster (l'ultima?), ma tutto si ferma lì. Brighton Beach è un nostalgico e ben riuscito folk acustico che ricorda l'età dei primi amori immediatamente antecedenti alla fama che arriverà da lì a poco e stravolgerà la sua "normale" vita; It's Over scritta con il chitarrista John 5, sulle (tante) relazioni finite, parte folk e acustica prima di trasformarsi inghiottita in un crescendo orchestrale, Make Love To Me Tonight, la più convincente, uno scottish folk con violino e slide, l'unica scevra di sovrastrutture, limpida e pulita.
Rock/pop adulto e inoccuo esce da Can't Stop Me Now dedicata al padre e da Beautiful Morning, un up tempo con chitarre, dai grandi cori che invitano al ballo. Bella Live The Life, filosofia di vita rivolta ai figli e che musicalmente si tuffa ai tempi di Atlantic Crossing (1975) e A Night On The Town (1976).
Non mancano due numeri da navigato crooner che ripercorrono gli ultimi dieci anni della sua discografia da interprete, ma quantomeno qui le canzoni sono sue: la nostalgica Time dall'anima soul tra hammond e gospel e la finale Pure Love, delicata e leggera ballata pianistica colma di arrangiamenti orchestrali.
La voce ha perso la graffiante efficacia dei tempi d'oro, complice un'operazione alla gola-anche se Stewart sostiene il contrario-ma l'impressione generale è quella di un vecchio rocker soddisfatto della sua vita, dei traguardi raggiunti da quell'ex ragazzo ribelle in cerca di guai, figlio di un umile idraulico scozzese, che dalla vita ha ottenuto più di quello che si fosse mai immaginato. Se li è goduti ("Ne Ho fatte di stronzate" racconta nell'autobiografia) e ora si permette di raccontarceli con sincerità abbandonando per un attimo le vesti da interprete; la stessa sincerità che non nascose nemmeno davanti ad una vittoria del suo suo amato Celtic contro i fenomeni del Barcellona, quando si lasciò andare ad un pianto liberatorio di felicità che fece il giro del mondo.
Comunque sia, Time qualche traccia nella mia estate la lascerà.

vedi anche RECENSIONE: BOB DYLAN-Tempest (2012)




vedi anche RECENSIONE: BILLY BRAGG- Tooth & Nail (2013)




vedi anche RECENSIONE: STEVE MILLER & EDIE BRICKELL-Love Has Come For You (2013)



vedi anche RECENSIONE: TOM KEIFER-The Way Life Goes (2013)




vedi anche RECENSIONE: ROD STEWART-Rarities (2013)







venerdì 10 maggio 2013

RECENSIONE: LUCA ROVINI (Avanzi e Guai)

LUCA ROVINI  Avanzi e Guai (autoproduzione, 2013)

25 Aprile, Festa della Liberazione. Un sole che quest'anno non si era ancora visto così, le nuvole a riposare nel lato invisibile del cielo, pronte per il violento risveglio del giorno dopo, sentieri prealpini di terra e pietre come serpenti striscianti e ubriachi, alberi finalmente colorati che cercano di far ombra a tartarughe sdraiate a bordo stagno, verdi pascoli con pigri cavalli  disturbati e accecati da raggi killer. Vago e cammino, felice, è il primo vero giorno di Primavera. La Liberazione dall'inverno. Con me, il solito simil iPod. Oggi, si ascolta anche il Luca Rovini da Cascina (Pisa), con quella copertina evocativa è un invito a nozze. Uno di quegli incontri casuali quello con il geometra e coscritto Rovini, via facebook, non ricordo nemmeno bene come, forse c'era Bob Dylan di mezzo. Dylan c'entra sempre in qualche modo. Poi scopro che siamo clienti di uno stesso negozio di dischi, io a due passi a piedi, lui più lontano, distante km e regioni. La scoperta migliore, però, la faccio quando scopro le sue doti artigianal-musicali, prima con le foto giornaliere che posta sul web, documentando, passo dopo passo, la nascita di una chitarra assemblata con le sue stesse braccia e con maniacale dovizia di particolari, un po' come fa il nostro idolo Seasick Steve, poi quando fa circolare Scoppia La Testa, la canzone trainante di questo suo primo CD. Rovini non è solo un liutaio a tempo perso che affida le sue opere (chitarre acustiche e Resonator di metallo) alle sapienti dita di Claudio Bianchini- unico compagno di viaggio in questo sogno musicale che si è avverato- ma anche un artigiano della musica suonata con spirito DIY, come si diceva una volta. Racconta storie piene di metafore, cantate in italiano (qui ci va l'applauso), che potrebbero essere uscite da un crocicchio di Chicago, o soffiate dal vento sulle polverose strade di Nashville, cantate da un hobo solitario in un marciapiede di Dublino, girare tra le malelingue di bordelli di periferia o passare di bocca in bocca tra gli avventori di una qualsiasi bettola di un paesino toscano di provincia, quella dove anziani e giovani uniscono lo sguardo all'entrata dell'avvenente Marilyn di turno. Tra solitudini, illusioni e sogni di rock'n'roll, Rovini ci lascia il cuore, quello che batte ardentemente per il folk, il blues acustico, il rockabilly '50, per gli idoli musicali americani della sua bella collezione di vinili. Quelli più famosi: Johhny Cash (Avanzi e Guai, Sguardo di Pietra), il primo Bob Dylan (Tra La Polvere Ed il Cielo, Corri Come vuoi), Willy Deville che omaggia pure esplicitamente nella conclusiva strumentale Late Night Blues, For Willy Deville e quelli italiani, Massimo Bubola, e il De Gregori (Cosa Fai) del folkstudio in testa. Mi ricorda anche i siciliani Il Pan Del Diavolo nella voglia di accompagnare per mano Elvis tra le vie (acustiche) dei nostri antichi borghi  e le verdi colline toscane traformandole in una itinerante Graceland tricolore.
Potremmo stare qui a discutere sulla sua voce imperfetta, la produzione a bassissimo costo come quei demo-registrati e confezionati alla grande però- che giravano di mano in mano negli anni ottanta, il minimalismo musicale, l'omogeneità che prevale. Potremmo, ma non avremmo capito nulla di un disco che riporta al centro dell'attenzione la spontaneità della musica, i desideri, la strada, la passione, il sudore di serate post-lavoro passate a costruire chitarre e sogni. Doti rimaste rare in un mondo digitale. Da
preservare e ascoltare come le storie che ci canta. " ...vola vola via, sporca danza vola via/ slaccia questi fili, nel mattino volerai/ lascia questa gabbia, labirinto di follia...vola vola via, sporca danza vola via, che la rabbia sia un ricordo/ la tua fuga il nostro amare/ le tue urla sian speranza, da imparare, da insegnare/ io ti guarderò come si guarda la realtà/ io ti sognerò come si sogna la libertà..." da Sporca Danza.



vedi anche RECENSIONE: TAG MY TOE-  (2012)




vedi anche RECENSIONE: THOMAS GUIDUCCI & THE B-FOLK GUYS-The Heart And The Black Spider (2012)



vedi anche RECENSIONE: SEASICK STEVE- Hubcap Music (2013)




vedi anche RECENSIONE: STEVE MARTIN & EDIE BRICKELL-Love Has Come To You (2013)



giovedì 9 maggio 2013

RECENSIONE: STEVE MARTIN & EDIE BRICKELL (Love has Come For You)

STEVE MARTIN & EDIE BRICKELL Love Has Come For You (Rounder Records, 2013) 
 
Nel 1988 fu difficile non innamorarsi della semplicità (e sorriso a fossette) di quella decisa ragazza texana vestita di lunghi stivali e cappello che insieme a suoi New Bohemians rilasciò un disco (Shooting  Rubberbands At The Stars) che ancora oggi suona piacevole, fresco e vitale nel mio giradischi di casa. La Brickell ha continuato la sua carriera incidendo dischi, ma mantenendo un basso profilo cantautorale più legato al folk e sfiorando il jazz, non riuscendo più a ripetere l'exploit commerciale di quel debutto (forse solo il secondo Ghost Of A Dog si avvicinò) e vivendo all’ombra dell’importante uomo con il quale da vent'anni divide la vita: un tale di nome Paul Simon. Ci voleva una star acclamata come Steve Martin per riportarla al centro dell'attenzione delle cronache musicali che le competono pur con un'esposizione mediatica che difficilmente espatrierà fuori dal settore di nicchia. Steve Martin, brillante e celebrato attore comico della commedia americana all’apice della fama nei ’70/'80, lanciato dal Saturday Night Live e fresco papà alla veneranda età di 67 anni, ha una passione, in verità mai nascosta, per il banjo e la musica country/bluegrass, partita alla grande fin dal 1977. Passione premiata dalla vittoria di un secondo Grammy Award nel 2002  (il primo nel 1978) e da una carriera musicale, prima interrotta e poi esplosa definitivamente negli ultimi cinque anni.
Love Has Come For You è frutto di una collaborazione attiva e non improvvisata, che coniuga perfettamente le partiture bluegrass melodiche, rootsy e garbate-mai sopra le righe-per banjo scritte da Martin con le liriche narrative e calate nel presente, la voce e l’interpretazione della Brickell, ancora fascinosamente uguale a 25 anni fa pur se privata di incisivi graffi che lascino il segno, ma tuttavia si limita a seguire fedelmente il mood melanconico e rilassato delle composizioni che tendono spesso a sfiorare il folk. Completano: la produzione dell'esperto musicista Peter Hasher (James Taylor, Neil Diamond, Linda Ronstadt), la presenza del  veterano lungocrinito Waddy Watchell alla chitarra, della giovane jazzista Esperanza Spalding al basso, degli Steep Canyon Rangers a legare il tutto e numerosissimi altri ospiti. 
13 canzoni brevi, piacevoli nella loro uniformità di fondo -che potrebbe trasformarsi nell' unico difetto per chi è poco avvezzo a certi suoni-garbate e carezzevoli come un leggero soffio di vento sugli Appalachi (When You Get To Aheville, Love Has Come For You), con qualche buona e frizzante scossa up tempo come in Get Along Stray Dog, piacevoli sconfinamenti pop trainati da melodie contagiose pur mantenendo la tradizionalità di banjo, violino e banjo in Siamese Cat, oppure incursioni irish/folk come nella ballata Who You Gonna Take?
Un lavoro di squadra, corale, ben riuscito. Una combinazione che farà sicuramente del bene alle carriere dei due musicisti e che potrebbe portare anche ad un seguito.




vedi anche RECENSIONE: KURT VILE- Wakin On A Pretty Daze (2013)




vedi anche RECENSIONE: SEASICK STEVE- Hubcap Music (2013)



martedì 7 maggio 2013

RECENSIONE: KURT VILE (Wakin On A Pretty Daze)

KURT VILE  Wakin On A Pretty Daze (Matador Records, 2013)

Per Kurt Vile, il tempo sembra non avere confini da rispettare, come vorremmo sia  sempre quando tutto va per il verso giusto. A lui ora, neo padre di famiglia, sembra andare bene pur con tutti i dubbi che si trascina dietro nel suo personalissimo mondo, tanto da testimoniarcelo con una foto stampata direttamente sul CD che lo ritrae insieme alla figlioletta in un normalissimo quadretto domestico di quotidiana routine.
Tempo autonomo di prolungarsi all'infinito, attorcigliato ad una melodia, a degli accordi prolungati come immense praterie younghiane, ad un testo nostalgico. Tutto può essere in anticipo, in orario o in ritardo. Poco importa. Ascoltando il suo quinto lavoro solista-in sei anni- lo si percepisce quando dal primo minuto dell'iniziale Wakin On A Pretty Day (non è da tutti iniziare con una canzone di 9 minuti con una lunga coda strumentale, a meno che, di cognome non fai Young, e allora puoi anche arrivare a 28) fino alla nota finale della conclusiva Gold Tone, si attraversano 69 minuti di musica veleggiando in uno stato atemporale, cullante e quasi rassicurante pur con la malinconia dipinta di nero sul fondo, con poche scosse ma ben posizionate (l'up tempo di Snowflakes Are Dancing,Shame Chamber che mi porta alla mente gli Eels) ma con la placida certezza di stare ad ascoltare il suo lavoro definitivo (fino ad ora), riuscendo anche a superare il precedente e acclamatissimo Smoke Ring For My Halo (2011) che era un disco diretto e viscerale, confezionato dentro ad una copertina anonima e in bianco e nero; ora, la copertina, costruita su misura sui muri della sua Philadelphia, è a colori e lo ritrae che sembra un "fratello minore dei Ramones" in Rocket To Russia mentre le canzoni, questa volta, sono meno immediate, più strutturate, pur mantenendo il basso profilo di sempre. "Era il passo più logico da compiere dopo aver realizzato un LP di canzoni pop 'succinte'. Che cosa si può fare dopo? Canzoni pop più lunghe ed epiche. Immaginate di stare in un'auto e di ascoltare il proprio pezzo preferito senza il bisogno di farlo ripartire più volte" racconta Vile in una intervista rilasciata a Exclaim!
Le tre canzoni che arrivano quasi a toccare i dieci minuti non sono che la testimonianza di una consapevolezza/libertà di scrittura arrivata ad una maturità definitiva. Un percorso in crescendo il suo: dopo la breve parentesi con i The War On Drugs e la vera partenza solista con Constant Hitmaker del 2008, una costante crescita mantenendo bene i piedi equamente divisi tra tradizione e rock alternativo lo-fi.
Vile segue una linea di spontaneità personale, prerogativa dei grandi (da Lou Reed a Neil Young), che non ammette barriere, costrizioni e invasioni nella sua musica, a parte l'aiuto in produzione di Rob Laakso, John Agnello e Matt Boynton, i suoi fidi Violators (lo stesso Rob Laakso al basso e Jesse Trbovich alla chitarra) e alcuni musicisti ospiti; che si permette di citare il rapporto con il padre in Too Hard, snocciolato sul foglio con la stessa intensità emotiva che appartiene a Leonard Cohen.
Tra arpeggi folk stranianti e psichedelici (Girl Caled Alex), effetti elettronici e i Synth dell'autoanalitica ("c'era una volta nella mia vita") e veloce Was All Talk, il dondolante ritmo di valzer di Pure Pain che cambia velocità trasformandosi in un british folk dal retrogusto medioevale, fino all' intensità ipnotizzante e spolverata di glam dalla chitarra che potrebbe essere la sei corde del compianto Mick Ronson in Kv Crimes. Kurt Vile percorre le contorte vie della sua mente con placida andatura, voce strascicata, languido ritmo che dopo il terzo ascolto non puoi fare altro che tenere il suo passo e andargli silenziosamente dietro.



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venerdì 3 maggio 2013

RECENSIONE:SEASICK STEVE (Hubcap Music)

SEASICK STEVE   Hubcap Music (Fiction/Polydor, 2013)

La leggendaria favola d'altri tempi con lieto presente di Seasick Steve è diventata di dominio pubblico. Ora che è stato sdoganato dal grande pubblico, complici i numerosi musicisti che spintonano per suonare con lui-anche su disco come vedremo (tra i primi ci fu Nick Cave)-il settantunenne vecchio bluesman di Oakland ma con base in Europa (Norvegia) non cambia il suo approccio genuino e viscerale alla musica e i rombanti cavalli del motore di un vecchio e amato trattore John Deere che si sentono in  apertura dell'hard boogie Down On The Farm, dove pare trasformarsi nel quarto ZZ Top, vogliono marchiare il concetto, unitamente al testo che non ammette troppe repliche: " Amo l'odore dei negozi di forniture agricole/ un misto di semi, tute da lavoro, olio e tanto altro/ Puoi prendere una nuova pala e un nuovo rastrello/ prendere la tua motosega affilata/ Ma devi attendere/ Sono in pausa Caffè". Sembra quasi di vederlo, come un "maturo" ragazzo di campagna in trasferta in città, mentre esce dal negozio e si dirige verso il trattore parcheggiato con i nuovi acquisti in spalla, così come in Home dipinge i suoi amori con ingenua innocenza (due vecchi trattori gialli e verdi, un anziano cane, e un' arrugginita Chevy 51), aiutato dalla chitarra sudista di Luther Dickinson.
Registrato a Nashville, Hupcap Music -titolo dedicato ad una delle mitiche chitarre che si costruisce con meticolosa cura artigianale, quella ricavata dal manico di una zappa in disuso e due vecchi coprimozzi di ruota (vedi copertina ed esilarante video)-continua a rotolare nella vecchia, semplice, rustica e incontaminata strada del blues (anche se dice di amare più il rock'n'roll), come lo stesso Seasick Steve preme a sottolineare, ribadendo che per la realizzazione del disco non sono stati utilizzati moderni computers ma solo un vetusto nastro analogico. In fondo, caro vecchio Steve non era nemmeno necessario segnalarcelo. Ti crediamo, anche se qualche limata a certe ruvidezze e maggior pulizia sono state apportate: il confidenziale country a due voci di Purple Shadows insieme alla splendida Elizabeth Cook con le pedal steel evocative di Fats Kaplin a creare scenografia e la finale Coast Is Clear, un numero soul/r&b condotto con voce da astuto crooner alla Joe Cocker con tanto di sezione fiati e hammond a condurre il gioco, sono lì a dimostrarcelo e...stupirci anche un po'.
Per il resto, Seasick Steve, a capo basso, un logoro baseball cap calato in testa, camicia a quadri con maniche arrotolate, jeans sdruciti e scarpe grosse, ci regala quello che ci aspettiamo da lui: blues a tutta full band, ora vitaminico (in maggiore quantità rispetto al precedente You Can't Teach An Old Dog New Tricks -2011) quasi volesse mascherare la sua reale età facendo a cazzotti con il diavolo, come nell' autobiografico boogie Self Sufficient Man, nel talkin' blues scatenato di Keep On Keepin' On suonato con la Cigar box guitar, nella pesante e cadenzata The Way I Do dove compare magicamente l'inconfondibile chitarra di Jack White, in Heavy Weight, nella marcia per la libertà Freedom Road; oppure sedendosi comodamente su un vecchio sedile d'auto abbandonato nel mezzo di un campo arato, gambe incrociate, chitarra folkie, mandolino, ukulele (Over You, la speranzosa Hope) e un tramonto rosso che chiama l'oscurità all'orizzonte.
Ad aiutarlo, l'inseparabile compagno di bevute Dan Magnusson alla batteria e l'altrettanto sempre presente John Paul Jones (Led Zeppelin) al basso, voce, hammond, ukulele e mandolino, che evidentemente deve averci preso gusto nel suonare sui palchi di campagna attorniato da galline dopo una carriera da venerata (ma defilata) rockstar.
I giorni passati sui campi saranno pur sempre uguali a se stessi, sette su sette. Però, vuoi mettere?




vedi anche RECENSIONE: SEASICK STEVE-You Can't Teach An Old Dog New Tricks (2011)



vedi anche RECENSIONE: THE REVEREND PEYTON 'S BIG DAMN BAND-Between The Ditches (2012)



vedi anche RECENSIONE: DAVE ARCARI & The HELLSINKI HELLRAISERS-Whisky In My Blood (2013)



vedi anche RECENSIONE: TEDESCHI TRUCKS BAND-Made Up Mind (2013)