venerdì 29 marzo 2013

RECENSIONE: DEPECHE MODE (Delta Machine)

DEPECHE MODE  Delta Machine  (Columbia, 2013)


Delta Machine, tredicesimo album di studio della band britannica si nutre, a partire dal titolo, di una grande contraddizione: può il blues (nel senso più ampio del termine, e sottolineo ampio) essere spietatamente freddo e riuscire a riscaldare così bene anima e cuore? Se lo date in pasto alle macchine infernali di Martin Gore e Andy Fletcher, la risposta è sì. Ascoltate: il mistico singolo Heaven uno dei pochi veri momenti melodici e accessibili dell'intero disco che arriva a sfiorare il gospel, i disturbi di una Angel a due marce, la placida lentezza seduttiva sulle rive di un Mississippi contaminato di scorie in Slow, i synth battenti di Soft Touch/Raw Nerve, il canonico giro blues incastrato all'interno dell'electro incedere di Goodbye, quasi Muddy Waters, dall'alto, guidasse le mani di Gore sulle corde della chitarra (in verità, strumento poco presente in tutto il disco) all'interno di una macchina del futuro che il leggendario bluesman non ha fatto in tempo a conoscere, e che forse mai avrebbe apprezzato. In più, a rafforzare l'affermazione, l'esperienza maiuscola di Dave Gahan tra le ragnatele dei Soulsavers nel bello e poco celebrato The Light The Dead See dello scorso anno è servita, si sente nel timbro vocale rassicurante in continuo progresso durante gli anni  e nella affermazione in fase compositiva del cantante; tre pezzi con la sua firma in un solo album sono cosa rara e da ripetere quanto prima, visti i buoni risultati-aggiungo-. I Depeche Mode hanno sempre avuto la capacità, da Some Great Reward (1984) in avanti, di restare fedeli a se stessi, alla loro missione musicale, aggiungendo o sottraendo input alla loro musica con perizia chirurgica, prorogando una longevità che sembra fare sempre tendenza-generando imitatori- pur restando ancorata all'elettronica e alla fede per i synth di partenza. Negli anni sono sempre cresciuti, hanno creato capolavori come Violator (1990) raggiungendo ogni tipologia di ascoltatore rock, ma si sono anche fermati, inciampando in qualche passo falso discografico e umano, e di stanca routine come l'ultimo  Sounds Of The UniverseDelta Machine potrebbe rappresentare una (buona) nuova ripartenza, e perchè non sperare nel ritorno stabile di Alan Wilder dopo il timido riavvicinamento, per completare l'opera e dare maggiori stimoli per il futuro? Qui, di stanchezza sembra essercene meno a favore della ispirazione, nonostante ascoltando l'album per la prima volta, potrebbe sembrare il contrario. Ci vuole impegno. Nulla è regalato questa volta, nemmeno il singolo lo è.
"E’ bello fare qualcosa di diverso ogni volta, qualsiasi cosa. Magari qualcosa di semplice purchè non ci si ripeta. Heaven è stata composta al piano. Avevo scritto gli accordi, la linea vocale e il testo prima ancora di avvicinarmi ad un computer". Racconta Martin Gore, seconda voce straordinaria in molti punti del disco, durante l'intervista per il making of dell'album.
Difficile fare peggio del precedente Sounds Of The Universe e Delta Machine pur riprendendo idee e suoni già presenti e sentiti lungo i solchi di una carriera trentennale, riesce nel miracolo di collocarli in una nuova dimensione: moderna, cupa, oscura e quasi impenetrabile, dove la voce di Grahan si assume l'incarico di essere l'unico viatico d'entrata verso la forma umana, mentre la produzione di Ben Hiller gioca a smorzare più che a sottolineare, nonostante un ritorno massiccio all'elettronica. Un disco unico nella loro carriera, e mi permetto di dire ben riuscito. La non presenza di un vero e proprio singolo "riempi pista" a fare ombra, pone democraticamente tutte e 13 le canzoni sullo stesso livello, generando quasi un mood ininterrotto di 60 minuti, che parte dal benvenuto "sinistro" e ben augurante di Welcome To My World e arriva al commiato liberatorio e purificatore della finale Goodbye:
"Sei stato tu a togliermi l’anima di dosso/e poi l’hai buttata nel fuoco/e l’hai domata e rapita/
e mi hai riempito di desiderio/adesso sono puro/sono pulito/e mi sento bene e sereno".
Profondità e lentezza prendono spesso il potere come nella liquida onda elettro-cardiaca di My Little Universe o nella disturbante Alone,  interrotte da repentine accelerazioni  come capita in Angel o da alcuni episodi decisamente up tempo, in netta minoranza, come Should Be Higher , Shoote My Soul, forse l'unica concessione vera al dance floor e agli anni '80, o la già citata Soft Touch/Raw Nerve.
I temi delle liriche sono quelli di sempre, appesantiti da una coltre di scura nebbia disturbante convertita in assuefazione: il tempo che fugge (Broken), le paure, le sofferenze, gli incubi, anime in cerca di redenzione, le metafore religiose provenienti da un tenebroso e asettico mondo dove puoi dormire placidamente il sonno del diavolo per dare lui soddisfazione o camminare con l'angelo dell'amore che ti veglia sulla testa. Eppure ad uscirne vincitore è sempre la positività dei sopravvissuti (My Little Universe, Heaven, Goodbye).
Forse questo era il miglior seguito possibile di Songs Of Faith And Devotion (1995) che chiudeva un capitolo roseo della loro carriera, aprendone un altro poco felice, segnato da dipartite artistiche e cadute umane. Arriva solo oggi uno dei dischi più coraggiosi, intensi ed ostici della loro carriera. Se lo possono permettere. Un lavoro complesso, ipnotico, coraggioso e apprezzabile che lavora con lentezza e nel tempo, e che fa ben poco per accaparrarsi le simpatie del primo ascolto. Voto: 7




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