sabato 29 settembre 2012

RECENSIONE: BLACKBERRY SMOKE ( The Whippoorwill )

BLACKBERRY SMOKE  The Whippoorwill ( Southern Ground Recording Group, 2012)

Nel sud degli States c'è una band che da alcuni anni sta riportando sui palchi  i vecchi fervori del southern rock più datato ed emozionale. Quello semplice e radicato. Quello che riesce ancora a trattenere ed incarnare gli ideali dei '70 e bilanciare musicalmente, in modo quasi perfetto, la parte country con quella più rock e blues, gli assalti chitarristici con la melodia. Lo fanno con estenuanti tour da headliner o aprendo per celebrità come ZZ Top, Lynyrd Skynyrd e The Marshall Trucker Band. I concerti ed il pubblico sono la loro linfa vitale e non mancano occasione per evidenziarlo.
Vengono da Atlanta, il loro nome è Blackberry Smoke e The Whippoorwill è il terzo album in carriera dopo Bad Luck ain't no Crime (2004) e Little Piece of Dixie (2009).
Anche se in questo nuovo lavoro non mancano deviazioni verso la parte più bucolicamente country e melodica della loro musica, niente è immutato nella loro scrittura e nella loro attitudine. Una canzone come la memonica One Horse Town farebbe invidia a più di un songwriter di country/americana e potrebbe portarli ad un grande successo commerciale. Gli spazi dilatati, aperti da lap steel e piano in un sogno chiamato The Whippoorwill con una chitarra  che ricama come un Neil Young a Zuma, non lasciano indifferenti, così come l'apparente semplicità dell'honk-tonk blues acustico di Ain't Got the Blues con dobro e piano.
Guidati dalla calda voce del singer e chitarrista Charlie Starr e dalla chitarra di Paul Jackson, con la sezione ritmica formata da Brit Turner alla batteria e Richard Turner al basso, con il prezioso intervento Brandon Still al piano e organo, i Blacberry Smoke innaffiano le radici del genere southern con devozione e rispetto ma anche con la schietta e fresca spavalderia giovanile.
L'apertura Six Ways to Sunday è quel southern/rock boogie con pianoforte che difficilmente si può trovare negli ultimi lavori dei Lynyrd Skynyrd. L'equazione è presto fatta: le nuove generazioni suonano vecchio e vintage, le vecchie band strizzano l'occhio al moderno, non sempre in modo credibile purtroppo. Qui di moderno troverete poco. Il camino acceso, il vino nel frigo e la voglia di perdonare le scappatelle di un vecchio amore nella melodia di Pretty little Lie, parlano chiaro.
Ancora amore e donne in Everybody knows she's Mine , fede in Ain't Much Left of Me che  battono dalle parti dei fratelli Robinson.
Leave A Scar è la canzone più veloce, con un taglio chitarristico molto hard ma con  banjo e hammond che cercano di farsi spazio, così come Crimson Moon e Sleeping Dogs bilanciate tra esplosioni hard di stampo '70 e riflessiva armonia acustica. Rock da grandi arene ma sempre funzionale e trascinante.
Dopo una Shakin Hands With the Holy Ghost dove il riff sembra provenire dal vasto repertorio degli AC/DC, il disco si conclude con Up the Road, ballata che sembra essere la loro dichiarazione di vita, con un finale in crescendo tra chitarre duellanti e cori gospel. 
Perfettamente prodotti da Clay Cook (presente alle percussioni in quasi tutte le canzoni), Matt Mangano e Zac Brown, il disco, che esce per l'etichetta discografica dello stesso Brown, si presenta in una veste grafica volutamente vintage e affascinatamente seppiata.
Per avere il quadro clinico del southern rock odierno, è obbligatorio passare per le strade della Georgia calpestate dai Blackberry Smoke. Sui cartelli stradali leggerete: in salute.


  

martedì 25 settembre 2012

RECENSIONE: MICHAEL McDERMOTT ( Hit Me Back )

MICHAEL McDERMOTT  Hit Me Back  ( Pauper Sky records, 2012)

Basterebbe la visione del bellissimo, originale ed autoironico/biografico video che accompagna Hit Me back, canzone e title track che apre il nuovo disco del cantautore americano Michael McDermott. Un pugile, lo stesso Michael, combattente e carico di tante buone intenzioni che affronta il mastodontico avversario (la vita in tutte le sue forme) che senza pietismi lo riempie di botte: labbro tumefatto, occhi neri e alla fine lo manda a tappeto, senza troppi complimenti. Metafora di vita. Batoste che segnano volto e percorsi, lasciando ferite e cicatrici che solo il tempo riesce a rimarginare. Nel frattempo, ci si consola nei modi più facili e spicci, e l'alcol è molto spesso un compagno sicuro ma traditore. Ma poi, se si ha la forza, si viene fuori da tutto: con la forza di un amore (Let It Go)-la moglie e artista Heather Lynne Horton sposata in Italia; dei figli -fresca paternità; la fede-le origini irlandesi; gli amici-tanti anche in Italia; i viaggi ( ascoltate l'elogio ai treni di Dreams about trains)-Michael ama talmente tanto il nostro paese che chiude il disco con una speciale dedica alla nostra terra, intitolata semplicemente "Italy". Gli appigli sono sempre presenti e visibili se non ci si lascia volutamente accecare. Scars From another Life, parla proprio di questo: per andare avanti bisogna lasciare le cicatrici da qualche parte, nel passato, in un altra vita.
La vita di Michael McDermott è passata veramente da quel ring ed i round, a volte, sembravano infiniti, tanto che qualcuno (il regista John Dahl) li mise anche in pellicola (Il giocatore-1998). Un cantautore dal talento brillante e scintillante -chiedere informazioni allo scrittore Stephen King che lo ha sempre sostenuto e spesso citato nei suoi libri- che ha dovuto sgomitare con tutto quello che la vita gli ha messo di fronte: da uno strepitoso debutto (620 W.Surf-1991) (forse) mai eguagliato-avvicinato solo dal secondo Gethsemane(1993), dalle case discografiche che a volte sembrano recitare un ruolo più da avversarie e ostacoli che vere amiche su cui poter contare, alle perdite umane che ne hanno segnato le liriche, a quei paragoni artistici che inizialmente fanno piacere ma che poi diventano un altro macigno ingombrante, tanto da fare da zavorra se si vuole spiccare veramente il volo con le proprie ali.
Anche Hit Me Back,  dodicesimo lavoro del songwriter di Chicago prende forma dopo una perdita importante: la morte della adorata madre, avvenuta nel 2011. Da questa perdita parte un lavoro come sempre introspettivo e ricco di sfumature musicali che sa guardare, sì alle cicatrici del passato ma anche calarsi con ottimismo nel più radioso presente. La mano del produttore CJ Eiriksson, non del tutto nuovo a McDermott, uno che ha lavorato con U2, Phish e Incubus si sente nei momenti più rock/pop come la titletrack, in She's gonna kill me, negli arrangiamenti orchestrali di Let It Go, nel'appeal radiofonico di The Prettiest Girl in the World ( con la chitarra di Grant Tye) che lo stesso McDermott non esita ad indicare come la canzone più divertente e spensierata che abbia mai composto che si contrappone in modo deciso al rock tirato e teso di Ever After, vera e propria dedica alla madre appena scomparsa. 
Senza dimenticare il prezioso lavoro di Klem Hayes al basso, Larry Beers alla batteria, Danny Mitchell alle tastiere e della stessa moglie Heather al violino e cori.
Ma il disco paradossalmente, almeno per me, inizia a prendere il volo quando la musica si libera di orpelli ed elettricità, diventando spoglia ed ombrosa. Le evocative visioni della folk ballad I Know a Place...,e soprattutto l'ultima parte del disco che ti inchioda i guantoni con chiodi di rara e piacevole bellezza, che sembrano fissare il tempo a poco più di vent'anni fa, quando le sue canzoni stregarono pubblico e musicisti. Canzoni nude ed acustiche che esaltano la sua voce e scrittura genuina, sensibile e profonda. Quando partono la intensissima ballata pianistica Is there a kiss left on your lips; e A Deal with the Devil, una dark western song, pronta a ricordarci che si arriva a Dio solo dopo aver fatto conoscenza del demonio.
I sei minuti di rara bellezza di The Silent Will Soon be Singing; e poi la sentita Where the river meets the sea che è, come spiega lo stesso McDermott, una di quelle canzoni che ti arrivano magicamente in dono da forze sconosciute. La dedicò al musicista Eric Lowen, malato di Sla, meglio conosciuto in coppia con Dan Navarro e morto nel marzo di quest'anno e la cantò al funerale della madre, che già in vita riuscì ad apprezzarla. 
La breve e acustica Italy, finale e speciale omaggio nato dopo una serata passata con amici italiani a Rocca San Casciano, è un piccolo affresco che emana sincera gratitudine ad un paese che lo ha adottato e che lo ospita sempre volentieri.
Se Michael McDermott ha ritrovato se stesso, noi abbiamo ritrovato, almeno nella seconda parte del disco che è quella che mi ha colpito di più, la sensibilità di un artista troppo spesso dimenticato (Stephen King dixit). Un outsider della musica che nemmeno con questo disco scalerà le classifiche di popolarità. Ma in fondo, chi ama la sua musica non vuole propriamente questo. Avanti Michael, la campanella dell'ennesimo round sta per suonare.

vedi anche RECENSIONE: MICHAEL McDERMOTT & THE WESTIES-West Side Stories (2014)







 

domenica 23 settembre 2012

RECENSIONE: FEDERICO BRUNO ( A Gentleman Loser )

FEDERICO BRUNO A Gentleman Loser ( Secondo Avvento produzioni, 2012)

Federico Bruno ha già scelto da che parte stare. In Italia, una scelta come la sua passerà sempre e comunque come una "scelta da pazzi", da perdenti appunto. Conosco avvocati che si attaccherebbero a qualunque cosa pur di avere una scrivania su cui appoggiare i piedi. Federico, ad un certo punto della sua vita, ha scalciato la sedia dell'ufficio e ha provato ad inseguire il suo sogno. Già questo meriterebbe rispetto; peccato che non faccia pop da classifica, perchè qui in Italia la sua musica difficilmente verrà premiata e la meritocrazia è l'utopia del secolo. Il tutto naturalmente depone a suo favore, qui,dalla nostra parte, quella dei perdenti ma onesti. Da oggi anche un po' più gentleman.
Registrato a Padova con l'aiuto di Manuel Bellone al basso e Domingo Cabron alla batteria, sotto la produzione di Mahatma Pacino e con la preziosa collaborazione di altri amici musicisti. Con una copertina che mi ha subito rimandato a Whiskey for the Holy Ghost di Mark Lanegan, dove però nessun fantasma fa ombra al tavolo: Federico è lì, presente, vivo con la sua sigaretta accesa e il bicchiere davanti. Il siciliano Federico Bruno vuole raccontarci la sua vita: lo si capisce subito quando parte la prima strofa di Burning star: "This is my life..."come un Mike Ness solista senza i suoi Social Distortion.
Ballate elettro-acustiche (I Fought the Devil (But he won))che di whiskey e fumo sembrano nutrirsi come faceva il primo Rod Stewart, quello ancora lontano da tutine colorate e paillettes, o meglio come faceva nei Faces in compagnia di quella faccia da schiaffi di Ron Wood. Come avrebbero potuto fare ancora per tanto tempo quel poco di buono di Johnny Thunders o quel poeta maledetto che fu Nikki Sudden se fossero ancora tra noi. Come facevano tutti quei personaggi di certo sleaze glam ottantiano (Roman Candle,Troubles), quelli più vissuti, genuini e meno appariscenti, quando salivano sopra ad un palco cercando di reinterpretare  la lezione impartita, qualche anno prima, dagli Stones in esilio parigino. O come nei novanta, quando il grunge staccava la spina e manteneva intatto tutto il suo carico emotivo di disagio e voglia di comunicare con il mondo.
Il crepuscolo di chi sa di dover remare contro tutto e che si sente, a volte, intrappolato o inadeguato nell'amaro folk di Trapped, poco amato e pieno di ferite aperte (Scars on my heart), ma sempre combattente e mai domo, nello scoppiettante rockabilly acustico di Like Once I did e pronto per continuare ad amare con rinnovato spirito (I Love You).
Ballate amare e intimistiche, confessioni in musica che improvvisamente cambiano di umore, quasi a voler rivendicare ad alta voce una appartenenza (Gentleman Loser), assoli di chitarra che escono dai cocci di vetro di Broken Glass che si chiude come un vecchio gospel blues innaffiato nell'alcol. La scelta, controcorrente, di danzare sotto la pioggia quando tutti si mettono in mostra sotto il cocente sole, in Dancing in The Rain.
Ecco, questo è un disco che vuole dare voce  a tutti quelli che, almeno una volta nella vita, si sono trovati soli davanti ad un bancone con un bicchiere pieno e la testa svuotata, pronta ad essere riempita da capo.
Il disco di Federico Bruno è un disco di cuore, pancia e sentimento. Di petali rossi che galleggiano nell'alcol ma che di affondare non ne vogliono sapere.

venerdì 21 settembre 2012

RECENSIONE: JOHN HIATT ( Mystic Pinball )

JOHN HIATT  Mystic Pinball (NewWest Records, 2012)

Dal fango e i jeans sporchi ai mistici passatempi da bar, il passo è stato più breve del previsto. John Hiatt, ad un solo anno di distanza dal precedente Dirty Jeans and Mudslide Hymns si ripresenta, riconfermando la straordinaria prolificità degli ultimi cinque anni e di tutta una carriera, a dire il vero. Ispirazione che gli ha permesso di registrare quattro album di discreto valore in cinque anni, questo è il terzo consecutivo negli ultimi tre. Dischi che hanno permesso a Hiatt di ritrovare una vena creativa brillante e fresca, cercando e riassaporando profumi dentro ai meandri della tradizione: il rock, il blues, il country, il soul.
Accompagnato ancora una volta dai suoi ormai fidi e solidi The Combo (Doug Lancio alla chitarra, Patrick O'Hearn al basso, Kenneth Blevins alla batteria) e dal produttore Kevin Shirley, e registrato a Nashville come il precedente, proprio da dove partì la sua carriera quand'era ancora diciottenne.
Un disco che poco aggiunge alla sua carriera e lontano dai suoi capolavori di fine anni ottanta (Bring The Family-1987, Slow Turning-1988) nati dopo periodi bui e di disperazione. Ora, alcune profonde ferite si sono chiuse e lo spirito osservatore può indagare con più tranquillità, mantenendo comunque l'urgenza comunicativa di sempre. Dice che, arrivato alla soglia dei sessantanni, sia tornato con lo spirito fanciullesco. Si sta divertendo. Si sente. Infatti c'è, ancora una volta, tutto quello che fa di Hiatt, uno dei più grandi songwriters americani, stimato, imitato e ricercato dai grandi interpreti. La sua incredibile voce soul, con il tempo sempre più aspra, i suoi testi: intrisi di romanticismo, cuori spezzati, l'amore che piace e quello che  fa soffrire, l'umanità raccontata (anche) con spietata ironia, le pieghe dell'America più nascosta. Un gradino inferiore, a livello di liriche, rispetto al suo rilassato predecessore (anche se Wood Chipper presenta un bel quadretto), ma musicalmente più vario e divertente.
Questa volta le chitarre elettriche prendono il sopravvento, almeno nelle prime tre canzoni, cocciando contro le sfocate e rilassanti figure di copertina-e retrocopertina- che lo vedono ritratto, in verità, un po' preoccupato e meditativo.
Il singolo We're alright now è un rock/blues pressante con tanto di claphands che ci incita a prendere coscienza e dare importanza alle piccole cose anche quando i giorni non vanno così bene come si vuole (...feels good like eatin' ice cream/so I try to have a little bit every day...), con quella impronta gospel/soul nei cori che abbiamo imparato a conoscere negli anni. Bite Marks batte territori stonesiani chiamando in causa Lee Van Cleef e immagini di un amore sanguinario, violento ma estremamente conturbante e seducente. It All Comes Back Someday è un blue-collar rock, buono per scorribande in autostrada, mentre You're All The reason I Need ha il taglio del brit-pop '60.
La già citata Wood Chipper è chitarristicamente oscura e avanza lentamente, quasi in levare, con il suo testo che narra in modo sapientemente cinemtografico di un triangolo amoroso finito nel peggiore dei modi, senza trascurare inaspettati e  ironici retroscena.
In My Business, John Hiatt ulula, scalcia e canta: "my babe don't like my business", mentre la canzone avanza diretta e giocosa nel segno del blues più contagioso, così come One of them damn days, un canonico e alcolico omaggio al blues del Delta con le chitarre ancora protagoniste.
Non mancano le ballate: I Know How to Lose You, l'arpeggiata, sofferta e dolorosa No Wicked Grin; I Just don't know what to say è una canzone con le chitarre di Lancio impegnate ad evocare spazi infiniti ed il pianoforte suonato da Hiatt come ai bei tempi di Have A little Faith in Me; oppure canzoni più rootsy come Give it Up, un allegro country up-tempo con la pedal steel di Russ Pahl e coro doo-wop contagioso, o la finale Blues can't even find me, folk con tanto di dobro e mandolino.
Nel mese delle pesanti uscite discografiche di settantenni (Dylan e Hunter), un sessantenne come Hiatt prenota, da protagonista, il prossimo decennio. Magari cercando di dare un po' di respiro ai suoi fans. Uscite così ravvicinate potrebbero togliere quell'attesa che ti fa assaporare meglio le cose e i dettagli. Il mio è un consiglio da ascoltatore. 
Infatti, a smentita, sembra che Hiatt abbia già pronte alcune canzoni per il prossimo anno. E' veramente tornato un ragazzino instancabile.


mercoledì 19 settembre 2012

RECENSIONE: MARK KNOPFLER (Privateering) ZZ TOP (La Futura) CAT POWER (Sun)

MARK KNOPFLER  Privateering  (Mercury Records, 2012)

E’ capitato poco tempo fa. Era il tour che Mark Knopfler ha condiviso con Bob Dylan, un connubio che ritrovava l’intesa (artistica) dopo anni di distanza e pacifico armistizio. Sentire voci scontente dopo il concerto di Mark Knopfler:” Ma come? Solo due canzoni dei Dire Straits? Che delusione!”. Eppure il concerto era stato splendido. Le sue canzoni della carriera solista, estrapolate da quasi quindici dischi (comprese le numerose colonne sonore) suonate e cantate con cristallina limpidezza insieme ad una grande band che comprende Guy Fletcher alle tastiere, anche co-produttore, l'unico superstite dei Dire Straits. Un vero piacere per le orecchie. Eppure.
Eppure, per molti, Mark Knopfler rimane ancora legato al "rock da arena" che non gli appartiene più. E pensare che ormai i suoi anni da solista (29 anni dalla prima colonna sonora Local Hero-1983) hanno superato, di molto, quelli spesi solamente con la band (18).
Rassegnatevi, voi nostalgici degli anni settanta/ottanta. Mark Knopfler sta andando oltre (da un bel pezzo), é lui stesso ad ammetterlo senza rinnegare il passato, rispettandolo ma con lo sguardo artistico proiettato da altre parti. Ma basterebbe l’ascolto dei suoi dischi solisti e di questo nuovo Privateering ,che mi sbilancio ad erigere a suo miglior lavoro solista, per fugare ogni dubbio. Un disco che forse manca della stoccata vincente, della canzone da ricordare, ma assolutamente libero da ogni vincolo di genere. Rilassato e rilassante che potrebbe anche diventare soporifero per chi non è abituato a certi suoni. Forse il disco sognato da tanti anni, dove il lavoro preteso (dai fans) dalla sua chitarra elettrica può anche prendersi una meritata pausa.
Un disco (anzi due ,della durata complessiva di quasi un'ora e mezza) ambizioso, lungo ma estremamente godibile (a parte un paio di riempitivi), dall’inizio alla fine.
Qui c’è veramente tutto il suo universo di "britannico che sogna l'America", più volte avvicinata, dal progetto The Notting Hillbillies fino al disco country con Emmylou Harris. Ma c'è anche un po’ del passato dei Dire Straits-forse per accontentare i nostalgici, di cui sopra- nella rockeggiante Corned Beef City che potrebbe essere uscita da Brothers in Arms.
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ZZ TOP  La Futura (American Recordings,Universal, 2012)

C’era attesa per il ritorno dei più grandi, sanguigni e longevi rappresentanti dell’hard/blues texano. Attesa, perchè il loro ultimo album Mescalero (2003), che risale a nove anni fa, era da riscattare. Attesa perchè, in produzione, il nome del re mida Rick Rubin prometteva assai bene. Purtroppo, come a volte succede, non sempre nascono colorati e accecanti fiori dai cactus dell’arido deserto e quello che ne è uscito soddisfa e diverte ma non convince pienamente.Ci si potrebbe accontentare, ma a volte la pignoleria prevale.

Già un anticipo dell’album era uscito pochi mesi fa, sottoforma di Ep dal titolo Texicali, che conteneva quattro canzoni qua presenti.
Se il compito più arduo era quello di riportare il suono del power trio verso la retta via del rock/blues, si può dire riuscito. Niente pasticci elettronici, concessioni troppo smaccate all’airplay radiofonico e synth ingombranti, ma un suono diretto dove la chitarra di Billy Gibbons riprende la corsa e a seminare assoli graffianti, la sua voce è diventata più roca e aspra che mai con il tempo, e Dusty Hill e Frank Beard alla sezione ritmica mantengono quello che hanno promesso dal lontano1970, anno di formazione della band: tiro e solidità. Il titolo La Futura fa il resto, richiamando le migliori opere degli anni settanta e onorando l’entrata nella Rock n Roll Hall Of Fame avvenuta nel 2004.
Quel (poco) che non va? La produzione in certe canzoni sembra calcare troppo la mano verso la fredda pomposità, facendo perdere quello che in un gruppo sostanzialmente blues come gli ZZ Top dovrebbe essere l’imprint indiscusso: l’anima e il calore. Rubin (insieme a Gibbons in sala di produzione) ha lavorato con gli ZZ Top come lavora con i gruppi di estrazione thrash metal, quando invece avrebbe dovuto usare la mano che usò sui dischi di Johnny Cash o Tom Petty. Il rischio di far diventare il tutto molto freddo è stato toccato e superato...
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CAT POWER  Sun (Matador, 2012)

In sei anni possono succedere tante cose. A Chan Marshall sono successe e il frutto lo abbiamo tra le mani: scotta, disturba, raggela, in certi punti è perfino fascinosamente invitante, alcuni morsi sono anche nauseabondi e scaduti da un pezzo ( 3,6,9 è fastidiosa, i dieci minuti di Nothin But Mine sono una lungaggine mal sopportabile, interrotta solamente dalla voce di Iggy Pop).
Nel 2006 usciva il suo ultimo album di studio The Greatest (il disco soul, quello della maturità si disse) cui fece seguito nel 2008 il suo secondo capitolo di cover Jukebox, dove metteva in fila tutte le sue influenze. Nel frattempo, Cat Power, oltre al classico taglio di capelli dopo essere stata abbandonata dall’uomo della sua vita (la foto di copertina è comunque di qualche anno fa), ha raggiunto quell’età -i miei primi 40 anni- che per una donna sono un crocevia non di poco conto, fatto soprattutto di nuovi inventari mentali e fisici ( Cat Power sembra ancora la ragazzina ventenne del debutto Dear Sir-1995 ). Ha poi girato tanti studi di registrazione: a Malibu, Parigi e Miami, in solitaria, sì perché tutto quello che esce da Sun è suo, con il solo aiuto in produzione di Philippe Zdar (Cassius). Un parto travagliato anche questo disco, ma una dimostrazione di completo controllo sulla sua arte che sembra servire ad infondere fiducia, più a se stessa che al mondo che la circonda.
Un ritorno a casa e in se stessa (Ruin). La classica nuova (altra) rinascita (Sun).
Quello che ne è uscito musicalmente è completamente diverso da quello che vi aspettereste da lei. Dell’ Indie-folk è rimasto veramente poco, ma è quel poco che tiene ancora su la baracca. Sono rimaste le liriche, quelle sì, sempre estremamente personali e introspettive. Tutte le cicatrici del passato: infanzia, depressione, alcol, perdite umane, aborti e crisi personali di varia natura sono ancora lì, magari ben nascoste sotto ad un enorme cerotto color pelle, ma è una lunga cicatrice che nessun laser e nessuna maledetta macchina elettronica riuscirà mai a cancellare.
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lunedì 17 settembre 2012

RECENSIONE: RYAN BINGHAM ( Tomorrowland )



RYAN BINGHAM   Tomorrowland ( Axster Bingham Records, 2012)

La prima volta che vidi Ryan Bingham fu all'ormai defunto Rolling Stone di Milano nel Gennaio 2008. Era appena uscito il suo debutto Mescalito(2007). Grazie ad un tambureggiante passaparola ed una buona campagna pubblicitaria, il locale era pieno e stupì non poco Bingham che nonostante un iniziale timore reverenziale, ne uscì vincitore, confermando tutte le buone parole che lo davano come il "radioso futuro del country/americana". Anche se mi fece lo sgarbo di lasciare fuori dalla scaletta Southside of Heaven. Maledetto, ero lì per sentire (anche) quella canzone e la nebbia coraggiosamente affrontata fuori dal locale faceva veramente poco Texas. Si farà perdonare qualche anno dopo.
 In mezzo, il secondo disco Roadhouse Sun, che spingeva maggiormente sull'acceleratore rock. Poi lo vidi l'anno scorso sul palco più informale di Sarnico (Bg)  nella piazza (in festa) del paese in riva al Lago D'Iseo. Fresco vincitore del premio Oscar, grazie a The Weary Kind, canzone che trainava il film Crazy Heart con Jeff Bridges protagonista nelle vesti di Bad Blake. Nessun atteggiamento da next big star, ma un approccio rock e scanzonato-coaudiuvato dai suoi The Dead Horses- che strideva con il suo ultimo album Junky Star che ci mostrava la sua anima più cantautorale, profonda, buia e sommessa. Quella sera Southside of Heaven era in scaletta e brillò.
Ora, ad un solo anno da quel concerto, molte cose sono cambiate: rotto il contratto con la prestigiosa etichetta Lost Highway, a cui va il merito di averlo lanciato, Bingham abbandona -sembra solo momentaneamente- anche la sua band The Dead Horses in qualche verde pascolo texano e si presenta con la sua personale etichetta discografica-fondata insieme alla moglie Anna Axster- e con una nuova sezione ritmica composta da Shawn Davis al basso e Matt Sherrod alla batteria, più un manipolo di ospiti (tra cui Keith Ciancia alle tastiere, Richard Bowden al violino e Greg Leisz alla chitarra) e dalla importante presenza in studio e produzione di Justin Stanley. Quasi a voler evidenziare una nuova fase della sua carriera ed una avvenuta maturità che gli possa permettere anche l'indipendenza e il coraggio di solcare nuovi territori musicali, lontano da ogni possibile imposizione e ricatto discografico. Una scelta coraggiosa ma estremamente esemplificativa per spiegare chi è questa ex promessa dei rodei nata nel New Mexico.
Nulla di eccessivamente stravolgente, ma Tomorrowland, fin dalle iniziali Beg For Broken Legs e Western Shore, si candida ad essere il suo disco più vario e sperimentale. Chitarre elettriche ben presenti- tutte suonate dallo stesso Ryan-ed un crescendo orchestrale che conquista, con la sua caratterizzante voce roca, rotta e dannata sempre in primo piano. Lo si era capito già dal primo singolo Heart Of Rhythm, un canonico e divertente inno al rock'n'roll, con poche pretese, tra fughe d'amore, musica salvifica e terra promessa-qualcuno ci crede ancora-, che sarebbe stato un disco diverso dal suo predecessore. E lo è.
Guess Who's Knocking è pesante, con un muro di chitarre stridenti  e la presenza di Greg Leisz che si fa sentire, portando la memoria a ricordare alcune cose pìù rock e dirette di Lucinda Williams. Tutte cose buone da suonare sopra ad un palco, tenendo il tempo come sul corto punk'n'roll veloce e diretto di The Road I'm On, fiera e battagliera rivendicazione di chi in strada ci è nato e continua a viverci (Neverending Show). 
Never Far Behind e Keep It Togheter presentano un Bingham che invece esce dalle strade sicure della tradizione rootsy per esplorare territori più moderni, soprattutto con il suono delle chitarre più dilatato, mentre Rising of the Ghetto, nei suoi sette minuti, è una composizione meno immediata, con strutture più complesse e stratificate di quanto ci avesse abituato precedentemente.
Non manca comunque il lato più intimistico e cantautorale, quello che lo ha premiato con l'Oscar. Quello dove esce l'animo texano di un ragazzo dall'infanzia non certo felicissima, che ha trovato nella musica il riscatto, tanto caparbio da scalare in pochi anni tutte le tappe del music-business, con il merito indiscusso di rimanere sempre con gli stivali ben piantati nella polvere.  Flower Bomb è la sua personale visione della società odierna, cantata e suonata come uno Springsteen in equilibrio tra il filo che lega Nebraska con The Ghost of Tom Joad e Devils and Dust. Fredda e glaciale esecuzione con sola voce e chitarra, così come la minimale No Help from God e il finale country/folk di Too Deep To Fill.
A qualche fan della prima ora verrà a mancare quella innocenza e spavalderia solare che contraddistinguevano il suo esordio Mescalito, così in linea con la tradizione rootsy di frontiera di vecchi padri come Steve Earle e Joe Ely, ma l'oggi trentunenne Bingham carica il suo van di tanti altri bagagli, che la sua ancora giovane età  permette di portarsi dietro. Anche chi credeva che Junky Star potesse essere il suo picco di maturità meditativa, dovrà fare i conti con Tomorrowland; qui troverà  tutto il suo recente passato e qualcosa in più, il suo presente ed un pezzettino di futuro. Un cantautore smanioso di mostrarci tutte le sue capacità, a cui non piacciono, a questo punto è palese, alcune etichette a cui è stato troppo frettolosamente accostato; tanto da ridisegnare il suo profilo artistico che rimane, e qui è il suo punto di forza, ancora onestamente credibile. Un disco modernamente rock che pecca solo nella eccessiva lunghezza(62 minuti per 13 canzoni), che potrebbe fargli perdere per strada vecchi fans, ma che conferma Bingham come una delle più interessanti proposte musicali uscite nell'ultimo decennio.

vedi anche RECENSIONE: RYAN BINGHAM live Sarnico(BG) 19 Giugno 2011   





venerdì 14 settembre 2012

RECENSIONE: CHRIS KNIGHT ( Little Victories )

CHRIS KNIGHT  Little Victories ( Drifters Church, 2012)

Chris Knight potrebbe essere il vostro lontano cugino americano. Il classico ragazzone del Kentucky, che ispira fiducia solo a guardarlo (una laurea in agricoltura), ma che potrebbe tenervi intere serate incollati davanti a due bicchieri di whiskey dentro ad un diner americano "tutto vetrate", e raccontarvi le tante storie che ha visto e vissuto in prima persona in quel pezzo di terra dove si estrae il carbone; terra che sembra andare sempre un po' stretta ma che alla fine si ama, e non si abbandona mai.
Knight non è più la giovanissima stella dell'americana; quello additato come il nuovo Steve Earle. Sono passati quattordici anni da quell'esordio omonimo del 1998, tanti anni e tanti dischi. Questo è il suo ottavo album in studio. Ora che ha superato i cinquanta, Chris Knight rivendica la sua totale indipendenza musicale. Uno dei migliori cantautori americani della sua generazione.
Il suo songwriting ha sempre parlato il linguaggio della gente comune, dei perdenti, delle difficoltà che si incontrano quotidianamente per le strade più battutte che portano nelle "small town" della sua zona, riuscendo a raccontare la sua terra e i suoi abitanti, gente semplice legata ancora al mondo rurale e all'unico bene, il carbone, che mantiene il lavoro dalla parte della sicurezza. Ma , anche, gente che sotto la cintura nasconde una pistola come nel vecchio far-west, facendosi giustizia senza aspettare l'intervento di sceriffi. Un cantautore alla vecchia maniera a cui piace poco l'avventura. Un abitudinario della musica che non ti inganna mai.
Di storie ne ha raccontate veramente tante in questi anni. Queste nuove gli sono arrivate in dono dopo che la sua terra fu colpita da una vera e propria tempesta di ghiaggio che non ha risparmiato nulla, lasciando le case senza elettricità e al buio per molti giorni. Una beffa nella beffa in questi austeri anni. A colpirlo, furono l'umiltà delle persone, pronte a ricostruire quello che la natura aveva spazzato via: anni di sacrifici rovinati da bombe di ghiaccio sganciate dall'alto e poi, chissà da chi?
Suonato quasi in presa diretta insieme alla sua band (Mike McAdam alla chitarra elettrica, Drake Leonard al basso e Michael Grando alla batteria), con la supervisione del musicista e produttore Ray Kennedy (già con Lucinda Williams, Steve Earle), in Little Victories (la canzone), Knight arriva, soprattutto, a coronare un sogno che si porta dietro fin da ragazzino. Perchè oltre a Steve Earle, l'altro metro di paragone è sempre stato il cantautore dell'Illinois, oggi sessantaseienne, John prine. Da sempre considerato il suo maestro musicale. Di Prine, furono le prime canzoni suonate alla chitarra dal giovane Knight. I due duettano in una intensa ballata folk/rock. Potrebbe essere questa una delle sue "piccole vittorie" personali.
Little Victories è però un disco che non ammette troppe autoreferenzialità, ma si propone di scuotere e spronare, mettere in risalto il carattere della sua gente, bilanciando in modo equo, il lato elettrico- esaltato dalla sporca e rovente produzione-con quello acustico della sua musica.
Canzoni tese e chitarristiche come Missing You (con l'ospitata di Buddy Miller), quando contare sulle proprie forze diventa utile e necessario in attesa di tempi migliori, che prima o poi arriveranno come cantato nell'iniziale rock In The Mean Time o come Jack Love Jesse con la sei corde di  Dan Baird ex voce e chitarra dei defunti Georgia Satellites. O la tesa andatura della finale The lonesome Way accompagnata dal violino di Tammy Rogers.
Ma anche ballate intimistiche come Nothing on Me, folk song solitarie per voce e acustica come Out of this hole, delicate country song guidate dal banjo  Hard Edges.
L'America raccontata da chi vive, ancora, a contatto diretto con l'illusione del sogno americano. Quello che i banchieri avverano e toccano con mano tutti i giorni, mentre i poveri continuano a leggerne sui libri di storia.
Un disco che non aggiunge nulla alla carriera di Chris Knight se non confermarne l'onestà nell'approccio alla scrittura e l'umile attitutine di continuare a lavorare nelle retrovie dell'americana con grandi risultati.
Un altro mattone di dura roccia che forma il muro che protegge il mestiere di chi usa la musica in modo ancora onesto e affidabile. La vera America emarginata, illusa e resistente che si aggrappa-ancora- a ciò che  una volta chiamavano romanticismo. Una garanzia.




 

mercoledì 12 settembre 2012

RECENSIONE: BHI BHIMAN ( Bhiman )

BHI BHIMAN   Bhiman ( Boocoo Music, 2012)

Perchè vanno bene i grandi miti della musica rock, quelli passati a miglior vita che ogni giorno si sorprenderanno leggendo la loro rivista musicale preferita fuori dall'edicola del paradiso/inferno, trovando ancora il loro nome legato alle ennesime vicende della loro normalissima vita terrena elevate a racconti da odissea; perchè vanno bene i bollettini giornalieri delle rockstar ancora in vita, elevati a  santi prima ancora di morire; perchè va bene una settimana (e più) di sbornia totale-meritata- con il nuovo Bob Dylan e Ian Hunter, ma là fuori, quelli che continuano a tenere in vita la musica di questi eroi del rock-vivi e defunti- sono i musicisti, quelli giovani, quelli che "sì, però assomiglia a questo e a quello". Hai voglia a scrivere.
Questo perchè, sarebbe un delitto scrivere dell'ennesimo concerto scandinavo di Springsteen o analizzare ancora una volta, nei minimi dettagli, la copertina di Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band e non dedicare qualche parola ad un talento come Bhi Bhiman. Negli Stati Uniti, questo suo secondo disco( il primo fu Cookbook-2007), intitolato semplicemente Bhiman, è già uscito a gennaio e ha fatto incetta di numerose critiche positive. A Ottobre dovrebbe uscire anche in Europa.
Leggendo la sua biografia, l'unica cosa che rimane impressa è il suo paese d' origine: lo Sri Lanka. Concepito da genitori asiatici, Bhiman nasce e cresce negli Stati Uniti a St. Louis, con il grunge degli anni novanta nelle orecchie, come tanti della sua età. Il suo talento musicale, invece, lo riverserà nel folk/blues, sfruttando la sua potente e particolare voce d'impronta soul, scoprendo Richie Havens. Ragazzone dalle idee chiare e concise che tiene a precisare che mai avrebbe preso parte ad un talent show, solamente per mettere in mostra il suo talento vocale e cantando cose in cui non crede. Così come dice in una intervista.
E' proprio la voce, la prima cosa che ti colpisce ascoltando le canzoni. Successivamente arrivano i testi in cui gioca ad immedesimarsi in tanti personaggi in modo ironico e giocando con le parole, infine le melodie immediate e vincenti. Roba da rimanere fulminati al primo ascolto.
Passa poca differenza tra le solitarie canzoni folk per sola voce e chitarra come nel lo-fi voluto in Atlatl, in Kimchee Line che narra la vita, vista dalla parte di un prigioniero nord coreano, nell'accecante gelosia tra due innamorati raccontata in Crime of Passion, ed una Take What I'm Given che sembra appena uscita, in libera uscita, da una session alla Big Pink House in compagnia di The Band e Bob Dylan. I suoni della sua personale cantina.
Perchè quando Guttersnipe, folk/blues che apre il disco, parte lentamente come il treno appena visibile in copertina e quello del testo che vuole portarci in cerca di noi stessi come l'hobo che ne è protagonista, ti accorgi che Bhiman qualcosina in più lo ha veramente. La corsa aumenta di ritmo, i suoi vocalizzi penetrano e Ben Tudor al basso, Gabe Turow al cajon e percussioni e Sam Kassirer al piano e organo sono ottimi compagni di viaggio. Gli accostamenti a Van Morrison non possono che far piacere.
Nella breve strumentale Mexican Wine riesce a mettere in mostra il suo particolare talento chitarristico fingerpicking, mentre la storia di Ballerina sembra mischiare l'antico west e i primi del novecento, tra matrimoni impossibili, sparatorie e fughe rocambolesche. 
Uno di quei rari dischi che mi hanno colpito al primo ascolto e che ho ascoltato ininterrottamente per una giornata intera, consumando la scritta del tasto play; venendo meno a quella legge (non scritta) che vuole i dischi troppo immediati, traditori nel tempo. Questo non lo farà, ne sono certo. Dopo il disco di Lee Bains III & the Glory Fires, questa è l'altra bella "giovane" sorpresa dell'anno.
Forse sto esagerando, ma per i miti del rock c'è sempre tempo. Tanto ci aspettano nell'aldilà, fuori dall'edicola.





 

lunedì 10 settembre 2012

RECENSIONE: CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD(The Magic Door)

CHRIS ROBINSON BROTHERHOOD  The Magic Door ( Silver Arrow, 2012)

Nemmeno il tempo di assimilare la prima parte del progetto Chris Robinson Brotherhood che si apre a noi la seconda porta, ancora una volta, apparentemente magica. The Magic Door, appunto. E titolo non fu mai così centrato.
Se il precedente  Big Moon Ritual viaggiava alto da terra, lungo lo spazio siderale e psichedelico, muovendo la verde erba dei campi sottostanti con la forza dei venti, questo secondo capitolo si sporca anche di terra e polvere, diventando in alcuni punti più diretto e terreno, giustificando così la voluta e netta distinzione tra i due lavori, nonostante tutte le canzoni arrivino da un'unica session di registrazione avvenuta al Sunset Sound di Los Angeles, sotto la produzione di Thom Monahan, e riuscendo ad aggiungere-magicamente- una nuova sfumatura a tutte quelle che il precedente lavoro aveva già fatto risaltare. Qui, le 7 canzoni vivono di vita propria, differenziandosi dal mood continuo che sembrava legare quelle presenti nella prima parte dell'opera. Due dischi legati ma in qualche modo differenti.
Bastino le due iniziali Let's Go Let's Go Let's Go e Someday Past The Sunset a confermare lo sbarco momentaneo sulla terra di questa nuova creatura di Chris Robinson. La prima è un vecchio successo del 1960 di Hank Ballard & The Midnighters, tra i primi precursori del rock'n'roll americano e spesso fondamentale ma dimenticato protagonista dei primi passi del rock. Un southern boogie blues trascinante dove Robinson sembra ritirare fuori gli artigli dopo le carezze di Big Moon Ritual così come in Someday Past The Sunset,  un oscuro blues dall'incedere quasi doorsiano e l'ombra di Johnny Cash a fare buio, il tutto trascinato dalla sezione ritmica  guidata da Mark Dutton (basso) e George Sluppick (batteria) e con la chitarra splendida di Neal Casal che si riconferma in grande vena creativa e punto di forza di tutto il progetto.
Little Lizzie Mae ha il passo rockabilly. Un aperto e sentito omaggio alla stagione più fertile del rock'n'roll, sempre alla loro maniera e con le tastiere di MacDougall, un piccolo mago dei tasti, pronte ad inserirsi e tappare ogni silenzio. Impossibile non notare alcuni riferimenti ai grandi del rock tra cui l' omaggio alla famosa rullata iniziale di Bonzo Bohman in Rock and roll.
Ci sono poi il country cosmico della finale Wheel don't Roll , altro esempio di quanto la band miri sempre più ad occupare il vuoto lasciato dai Grateful Dead più ispirati degli anni settanta, e la ripresa di Appaloosa, country/folk song che brillava in modo acustico nell'ultimo album Before the Frost...Until the Freeze dei Black Crowes  e qui trasformata con l'inserimento delle tastiere, senza perdere la sua limpida bellezza descrittiva. Grandi spazi, sogni e pace. Niente da chiedere in più.
Non mancano comunque canzoni che si riallacciano al primo lavoro: e' il caso del vero masterpiece Vibration & Light Suite, quattordici minuti di puro viaggio fisico-mentale in galassie sconosciute. L'inizio quasi soul/funkeggiante che si trasforma in un trascinante space/progressive con le tastiere di Adam MacDougall e la chitarra di Neal Casal vere protagoniste, fino a giungere allla liquida pace dei sensi finale. Veramente cose d'altri tempi e ispirazione creativa a mille, con largo spazio alla improvvisazione, come se tutto uscisse da un palco montato dentro alla vostra più fervida fantasia musicale, occupata e popolata- ancora -dai grandi festival, dalle grandi jam band e da quella grande voglia di libertà che animava il più ispirato, prolifico periodo della musica rock. Stupenda la lenta Sorrow of a Blue Eyed Liar, otto minuti di sogno etereo con Robinson ispiratissimo alla voce.
Ancora una volta non si butta via nulla. Un disco, come il precedente, figlio della incessante attività live del gruppo, qui catturata splendidamente da Thom Monaham. Due dischi che, uniti, riescono a dare l'idea di quanto la musica riesca ancora ad essere viva e vitale, fantasiosa, suonata con passione, anche lontano da circoloi esclusivi e canali di lancio preferenziali, e avendo una destinazione ignota e a lunga scadenza.  "Guardo alla musica come una conversazione e Neal (Casal) è un diffusore molto eloquente alla chitarra. Io sto solo cercando di mantenere la conversazione interessante" dice Chris Robinson.
Uno spot per la musica che meriterebbe ben altre ribalte. Ma qui, Chris Robinson mi sgriderebbe perchè la confraternita è, giustamente, cosa per pochi eletti. Suonate il campanello prima di oltrepassare la porta magica, potreste essere ospiti sgraditi.









 

 

venerdì 7 settembre 2012

RECENSIONE: IAN HUNTER & THE RANT BAND (When I'm President)


IAN HUNTER & the RANT BAND When I'm President ( Slimstylerecords, 2012)

 La zazzera di capelli e i grossi occhiali sono sempre quelli che campeggiano in tante altre copertine della sua discografia. Solo l'età avanza e cambia inesorabile: quest'anno sono settantatrè. La qualità musicale, invece, rimane miracolosamente immutata, in linea con i due precedenti dischi: Shrunken Heads(2007) e Man Overboard(2009) che lo hanno riportato al centro dell'attenzione, tanto da convincerlo a rispolverare anche i vecchi Mott The Hoople per una reunion, concretizzatasi nel 2009. I tempi bui e poco ispirati degli anni '80 e '90 sembrano un lontano ricordo.
"Madre, sono uno straniero, in una terra straniera, mi sento un alieno". Questa volta Ian Hunter punta davvero in alto. Quando sarà presidente tutto cambierà, canta nella titletrack When I'm President, un rock/pop inconfondibilmente marchiato Hunter. "Le canzoni sembrano più ottimiste questa volta. Gli ultimi due album sono stati piuttosto politici. Ho sempre pensato che gli anni di Bush fossero orribili, per fortuna sono passati." Racconta sul suo sito.
Rinfrancato dal cambiamento della situazione politica, il buon vecchio Hunter si ributta nel rock'n'roll e lo fa con immutato spirito giovanile e battagliero che camuffano la sua vera età.  Prova ne è l'iniziale Comfortable(Flyin' Scotsman) che apre il disco. Un boogie rock'n'roll con tutta la sua compatta Rant Band a macinare riff ( Steve Holley alla batteria, Paul Page al basso, James Mastro e Mark Bosch alle chitarre e Andy Burton al piano ) che nel frattempo si è pure guadagnata il monicker in copertina, di fianco al nome del capo. Canzone con la presenza del sax di Mark Rivera che sembra uscita da All-american alien Boy(1976).
Un incitamento a non mollare mai arriva anche da Fatally Flawed, una semi-ballad dylaniana disturbata da squassanti scariche elettriche a cui il buon Andy York, produttore del disco insieme a Hunter (i due si celano sotto il nickname The Prongs) e ospite ben presente in tutto il disco, contribuisce con la sua chitarra. Ancora rock'n'roll chitarristico e stonesiano esce da What For, una stoccata incisiva e ben assestata a tutta la spazzatura mass-mediatica.
Black Tears si tuffa nei forti colori del blues/soul con un bel solo finale di chitarra di Mark Bosch.
La solarità di un disco che esplode nella sua parte centrale e che Hunter spiega così sul suo sito : "Io non vado alla ricerca delle canzoni. Devo aspettare che loro vengano da me. Ho avuto uno scatto nell'estate del 2011 e da lì è partito tutto. Il songwriting è sempre stato un mistero per me . Di tanto in tanto si è più vicini al sole, e si deve essere pronti a catturarlo."
"Non sono un santo/ e non sarebbe la stessa cosa senza musica" canta nella ballabile Saint, tra flauti, farfisa e atmosfere da festa campestre così come nell'amore per una donna semplice cantato in Just the Way You Look Tonight. Tra il Mellencamp di The Lonesome Jubilee e Springsteen.
Wild Bunch è un  pianistico shuffle da saloon che sembra chiamare in causa il primo Rod Steward e suoi Faces che si conclude con un coro "We shall gather by the river" che fa il verso all'inno patriottico americano Glory Glory Allelujah a cui partecipa anche il figlio Jesse Hunter Patterson, che si prende la scena, scrivendo e duettando con il padre in I Don't Know What You Want un doo-woop blues con la presenza di Rick Todisco alla chitarra solista.
Ta Shhunka Witco(Crazy Horse) è la canzone più darkeggiante e atipica del disco, un nuovo inno in difesa dei nativi pellerossa che presenta oltre ad un flauto irish anche l'unica concessione elettronica del disco con le tastiere di Andy Burton a creare un tappeto marziale da danza della pioggia.
Quale miglior conclusione con la ballata Life:
"Easy come-easy go-just another rock'n'roll show,hope you had a great night/when you get home and climb into bed-just remember what I said/laugh because it's only life".
Un augurio che Ian Hunter ci fa e che contraccambiamo. Buona vita e altri cento di questi dischi.
 



 




 





 

mercoledì 5 settembre 2012

RECENSIONE: BOB DYLAN ( Tempest )

BOB DYLAN   Tempest  ( Columbia Sony Music, 2012)

Scrivo queste righe durante una di quelle sere di fine estate quando la calura ha già lasciato il posto alla frizzante aria settembrina che entra senza troppo permesso dal balcone, scompigliando il buio, i pensieri e solleticando la fioca luce dell’abat jour. E’ una di quelle sere dedicate totalmente a Dylan. Succedono una, due, tre volte all’anno. L’unica a scadenza fissa, non so perché, ma è sempre quella di fine estate (come l'uscita dei suoi dischi: ancora una volta l'11 settembre). Una di quelle sere in cui i dischi sono lì, sotto lo stereo, sparpagliati e disordinati, come l’ascolto delle canzoni: quando passi da Love Sick a Jokerman, da Dear Landlord a Political World, senza un senso logico temporale. E questa sera ci sono anche le nuove canzoni di Tempest. Qualche dylaniano riuscirebbe anche a trovarlo, quel nesso tra le canzoni.
Poi inizio a farmi delle domande.
Quante vite ha Bob Dylan? Quante ne ha raccontate? Quante ne ha cambiate, e quante ne ha salvate? Quante ne ha sotterrate-in senso artistico-prima ancora che ebbero inizio? Quando il passatempo era associare la didascalia “il nuovo Dylan” a qualunque essere vivente con una chitarra in mano. Only the strong survive.
Quante volte lo si è dato per morto-sempre in senso artistico, anche se non mancano episodi più terreni o da leggenda-, e quante volte ha dimostrato di essere più vivo che mai? Difficile rispondere. Perché il suo libro è ancora fascinosamente e misteriosamente aperto e oggi, lui è "molto" vivo.
Di una cosa si ha la certezza. Da Time Out Of Mind, Dylan ha ristretto il suo raggio d’azione. Attenzione, non vuol dire che abbia perso la vena creativa, anzi. Credo che la sua ricerca musicale di tutta una carriera abbia finalmente trovato un punto focale. Il recupero di tutta quella enorme quantità di musica di cui avrebbe voluto essere protagonista. Quasi una irrefrenabile voglia di impossessarsi del tempo, quello che per motivi anagrafici non ha potuto vivere e poter giustificare così, in modo totalitario, il titolo di artista del ventesimo secolo che spesso gli viene-giustamente- attribuito. Intanto i secoli sono diventati ventuno.
Tutto ha un suo perché: Good As I Been to You(1992) e World Gone Wrong(1993), dischi di vecchi traditionals degli anni venti e trenta riletti in acustica e solitaria bellezza, non furono che il preludio del  ventennio successivo che ha nel 1997, la data ufficiale della nascita dell’ultima vita dylaniana-coincidente con il sistema cardiaco che fa le bizze e il ritorno nella parte del menestrello ai piedi di Papa Wojtyla-, quella che continua ancora oggi e che il nuovo Tempest ha portato a sublime esaltazione. Ebbene sì, Tempest è un gran disco. Di ballate essenzialmente e qualche rovente blues. Di amore e di morte. Di tante citazioni da decifrare, studiare. Di passato e di presente. Di mistero e qualche certezza.
Ancora una volta, a Dylan piace prendere le veci del rocker in disuso, lo stesso che recitava in film come Hearts Of Fire o Masked and Anonymous. Quello saggio che sa partire da molto lontano per raccontarci il presente, usando metafore, giocando con le parole e le rime come solo lui, ineguagliabilmente, sa fare. Quello talmente fuori moda da essere eterno. Quello che si nasconde in concerto, defilato in un lato dietro alle tastiere e che gira per le strade americane, alla ricerca di nuove case da comprare, conciato come un vecchio barbone. Forse per prenderci per il sedere, forse per far risaltare ancora di più la sua grandezza, Dylan si diverte in questo ruolo e in quello di produttore dove si cela, ormai da alcuni anni, sotto il nome Jack Frost. A tal proposito, il disco suona dannatamente bene e Dylan canta ed interpreta come non mai.
Un rocker che rievoca secoli passati e lontani in Early Roman Kings e lo fa prendendo in prestito uno dei giri blues più famosi e strausati della storia-Mannish Boy di Muddy Waters, I'm a man di Bo Diddley-,e dove, solamente alla fisarmonica di David Hidalgo (il Los Lobos è preziosa comparsa in tutto il disco)  è consentito il disturbo del ripetitivo incedere.
Oppure come nella epica title track Tempest, ballata di 14 minuti in cui racconta il suo Titanic, ispirato da The Great Titanic della Carter Family, come detto dallo stesso Dylan, senza tralasciare moderni riferimenti alla versione cinematografica di James Cameron. Se Francesco De Gregori ci aveva raccontato in musica e parole il "prima" della tragedia con la festa, le attese, lo sfarzo della prima classe ma anche la povertà della terza, Dylan ci regala anche la raggelante fine dentro un mare nero in tempesta. Dove le classi sociali non contano più nulla. Dove si è tutti uguali. Un lungo valzer con un Dylan dalla voce confidenziale e paterna, come un nonno che legge antiche storie marinare ai nipoti rapiti."Saw the water getting deeper/saw the changing of his world". Un brano senza sussulti musicali, ripetitivo nella forma, che ha la sua forza nel testo narrativo e nella presenza di un violino dai sapori irish. Sembra riprendere quelle vecchie e lunghe canzoni del passato fino a Blood on the tracks.
Duquesne Whistle, unica canzone scritta in coppia con Robert Hunter e con un testo aperto a molte interpretazioni, anche di carattere sessuale, è uno shuffle con un tiro da big band anni '30, che sbuffa (qualcosa ritorna a soffiare) come un treno in corsa e ti fa battere il piede e schioccar le dita. Il tutto si apre con le vecchie note jazz provenienti da una antica radio a valvole e con un Dylan che sembra travestirsi (vocalmente) da Louis Armstrong. Primo singolo, accompagnato da un video divertente ma anche gratuitamente violento, che in parte ruba l'idea e rivisita il videoclip di  Bitter Sweet Symphony dei Verve.
Piace l'incedere blues e sferragliante di Narrow Way, con tutta la band  sugli scudi, la stessa che lo accompagna dal vivo: Tony Garnier al basso, George G.Receli alla batteria, Donnie Herron alla steel guitar, banjo e violino, Charlie Sexton e Stu Kimball alle chitarre. Canzone chitarristica che live potrebbe esplodere.
Tempest è un disco sostanzialmente di ballate: ci sono le note accomodanti, lievi e country di Soon After Midnight;
Scarlet Town, la mia preferita, è una ballata oscura e misteriosa che rievoca antichi paesaggi western, sbiadite fotografie dimenticate al sole, con il banjo e il violino (sembra provenire da Desire) che conducono lievemente il gioco fino all'assolo di chitarra. Quasi fosse una outtake di Oh Mercy o Time Out Of Mind.
Espiazione dei peccati in Pay in Blood. "I pay in blood, but not my own". E' forse la canzone con la melodia rock più orecchiabile, memorizzabile e diretta (sembra arrivare da Infidels), in un disco dove Dylan  ritrova le melodie sacrificate in questi ultimi anni, così come nei nove minuti ipnotici di  Tin angel, scandida in modo chiaro e brillante da splendide rime, che racconta di una tresca amorosa che si conclude nel peggiore dei modi.
La breve Long and Wasted Years è riflessiva, quasi un bilancio di vita con qualche rimpianto. Saranno i suoi? Intanto un organo stanco sbuffa un ciondolante blues. 
Roll on John chiude il disco. Epitaffio e ricordo per John Lennon, amico quasi coetaneo morto troppo presto, con un pianoforte che risuona come le più belle e ispirate canzoni soliste dell'ex Beatles. Una canzone che a Dylan mancava da molto tempo."Shine a light, Move it on, You burned so bright / Roll on John".
Tempest è un sunto degli ultimi quindici anni della sua musica, a cui ha voluto aggiungere quelle melodie da ricordare che mancavano negli ultimi quattro precedenti dischi : il Mississippi di Love and Theft, il malinconico  Modern Times, la frontiera di Togheter through Life, il passatempo natalizio di Christmas in the Heart. Un nuovo guizzo, una nuova zampata. Dylan.
Quando la vecchia stazione radiofonica che apre Duquesne Whistle inizia la trasmissione, non hai idea di dove le liriche ti porteranno. Uno scrigno pieno di riferimenti letterari, religiosi, musicali, cinematografici e geografici che solamente una mente ancora genialmente lucida come quella di Dylan riesce a generare. Peccato, ancora una volta, che nello scarno libretto(?), manchino i testi, anche se ci regala tre scatti fotografici (nelle foto): sul retro copertina è alla guida con il volante saldamente in pugno; all'interno: un primo piano con lo sguardo puntato lontano e una misteriosa figura femminile(con volto tagliato) alla sua sinistra  e poi con sigaro in bocca insieme a tutta la band. Tutto qua.
Ancora tanto lavoro per gli studiosi di Dylan, nell'anno che festeggia i cinquant'anni dall'uscita dell'esordio. Anno che si era aperto con il monumentale tributo Chimes of Freedom per Amnesty International ed è proseguito con la consegna della medal of freedom, massimo riconoscimento civile degli States, che il presidente Obama ha donato a Dylan nel maggio scorso. 
Tutti gli altri si potranno accontentare del miglior lavoro da Time Out Of Mind, e non è poco. Quante vite ha Bob Dylan?