venerdì 14 settembre 2012

RECENSIONE: CHRIS KNIGHT ( Little Victories )

CHRIS KNIGHT  Little Victories ( Drifters Church, 2012)

Chris Knight potrebbe essere il vostro lontano cugino americano. Il classico ragazzone del Kentucky, che ispira fiducia solo a guardarlo (una laurea in agricoltura), ma che potrebbe tenervi intere serate incollati davanti a due bicchieri di whiskey dentro ad un diner americano "tutto vetrate", e raccontarvi le tante storie che ha visto e vissuto in prima persona in quel pezzo di terra dove si estrae il carbone; terra che sembra andare sempre un po' stretta ma che alla fine si ama, e non si abbandona mai.
Knight non è più la giovanissima stella dell'americana; quello additato come il nuovo Steve Earle. Sono passati quattordici anni da quell'esordio omonimo del 1998, tanti anni e tanti dischi. Questo è il suo ottavo album in studio. Ora che ha superato i cinquanta, Chris Knight rivendica la sua totale indipendenza musicale. Uno dei migliori cantautori americani della sua generazione.
Il suo songwriting ha sempre parlato il linguaggio della gente comune, dei perdenti, delle difficoltà che si incontrano quotidianamente per le strade più battutte che portano nelle "small town" della sua zona, riuscendo a raccontare la sua terra e i suoi abitanti, gente semplice legata ancora al mondo rurale e all'unico bene, il carbone, che mantiene il lavoro dalla parte della sicurezza. Ma , anche, gente che sotto la cintura nasconde una pistola come nel vecchio far-west, facendosi giustizia senza aspettare l'intervento di sceriffi. Un cantautore alla vecchia maniera a cui piace poco l'avventura. Un abitudinario della musica che non ti inganna mai.
Di storie ne ha raccontate veramente tante in questi anni. Queste nuove gli sono arrivate in dono dopo che la sua terra fu colpita da una vera e propria tempesta di ghiaggio che non ha risparmiato nulla, lasciando le case senza elettricità e al buio per molti giorni. Una beffa nella beffa in questi austeri anni. A colpirlo, furono l'umiltà delle persone, pronte a ricostruire quello che la natura aveva spazzato via: anni di sacrifici rovinati da bombe di ghiaccio sganciate dall'alto e poi, chissà da chi?
Suonato quasi in presa diretta insieme alla sua band (Mike McAdam alla chitarra elettrica, Drake Leonard al basso e Michael Grando alla batteria), con la supervisione del musicista e produttore Ray Kennedy (già con Lucinda Williams, Steve Earle), in Little Victories (la canzone), Knight arriva, soprattutto, a coronare un sogno che si porta dietro fin da ragazzino. Perchè oltre a Steve Earle, l'altro metro di paragone è sempre stato il cantautore dell'Illinois, oggi sessantaseienne, John prine. Da sempre considerato il suo maestro musicale. Di Prine, furono le prime canzoni suonate alla chitarra dal giovane Knight. I due duettano in una intensa ballata folk/rock. Potrebbe essere questa una delle sue "piccole vittorie" personali.
Little Victories è però un disco che non ammette troppe autoreferenzialità, ma si propone di scuotere e spronare, mettere in risalto il carattere della sua gente, bilanciando in modo equo, il lato elettrico- esaltato dalla sporca e rovente produzione-con quello acustico della sua musica.
Canzoni tese e chitarristiche come Missing You (con l'ospitata di Buddy Miller), quando contare sulle proprie forze diventa utile e necessario in attesa di tempi migliori, che prima o poi arriveranno come cantato nell'iniziale rock In The Mean Time o come Jack Love Jesse con la sei corde di  Dan Baird ex voce e chitarra dei defunti Georgia Satellites. O la tesa andatura della finale The lonesome Way accompagnata dal violino di Tammy Rogers.
Ma anche ballate intimistiche come Nothing on Me, folk song solitarie per voce e acustica come Out of this hole, delicate country song guidate dal banjo  Hard Edges.
L'America raccontata da chi vive, ancora, a contatto diretto con l'illusione del sogno americano. Quello che i banchieri avverano e toccano con mano tutti i giorni, mentre i poveri continuano a leggerne sui libri di storia.
Un disco che non aggiunge nulla alla carriera di Chris Knight se non confermarne l'onestà nell'approccio alla scrittura e l'umile attitutine di continuare a lavorare nelle retrovie dell'americana con grandi risultati.
Un altro mattone di dura roccia che forma il muro che protegge il mestiere di chi usa la musica in modo ancora onesto e affidabile. La vera America emarginata, illusa e resistente che si aggrappa-ancora- a ciò che  una volta chiamavano romanticismo. Una garanzia.




 

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