lunedì 30 luglio 2012

RECENSIONE: HACIENDA ( Shakedown )

HACIENDA  Shakedown (  Collective Sounds, 2012)

Dan Auerbach-ancora lui- dice di essersi innamorato di loro fin da subito, quando la band di San Antonio gli spedì il primissimo demo. Difficile contraddirlo visto che Shakedown è il terzo album della band (il primo fu Loud is the Night-2008, il secondo Big Red & Barbacoa-2010) prodotto dallo stesso Auerbach.
Gli Hacienda sono anche stati la sua band di supporto durante il tour solista per promuovere quel bell'album che fu  Keep It Hid(2009)-passato troppo inosservato se confrontato con le ultime acclamate uscite dei Black Keys- e può considerarsi a tutti gli effetti la sua seconda casa musicale visto che la sua firma, in compagnia di quella del gruppo al completo, compare sui credits di tutte e dieci le canzoni di questo album.
Gli Hacienda sono una band a conduzione famigliare formata dai tre fratelli Villanueva: Rene al basso, Jaime alla batteria, Abraham alle tastiere e dal cugino Dante Schwebel alla chitarra. A vederli sembrano una gang ispanica poco raccomdabile, uscita da qualche poliziesco degli anni '70. Innamorati, senza nasconderlo,del pop solare dei sixties, delle armonie vocali dei Beatles, dei Kinks, degli Zombies, ma soprattutto dei Beach Boys a cui aggiungono quei tocchi di soul, funk, flower power, R&B, glam per costruire canzoni perfettamente pop che si impolverano il giusto nelle strade tra Texas e Messico: orecchiabili, chorus vincenti e melodici per raggiungere quel sapore "vintage" che tanto va di moda, a cui comunque dimostrano di credere fin dalla loro nascita artistica.
Con le tastiere di Abraham Villanueva e il basso di Rene Villanueva sempre in bella evidenza, Shakedown è un disco che nei soli 33 minuti di durata emana spensieratezza, comunicatività senza pretese da next big thing. Suonato senza alte mire e la forza dei fondamentali del rock'n'roll: solo musica e tanto spumeggiante divertimento. Non potrebbe essere altrimenti ascoltando l'apertura dall'incedere doorsiano di Veronica (no , i testi non sono morrisoniani ma un qualcosa di visionario lo hanno), il contagioso boogie alla T.Rex di Let Me go, come sentire un Marc Bolan abbandonato tra i cactus di San Antonio e accecato dalla visione di un Iggy Pop nudo che si impossessa della sua voce; il sound stile Phil Spector all'opera con i Ramones di Don't Keep Me Waiting ; il groove funk-cosmico di Savage; le facili melodie di Don't Turn Out the Light e Natural Life; l'assolo di chitarra tra le note di piano di Doomsday; la più riflessiva, psichedelica ed oscura Pilot in the Sky che chiude il disco in modo piacevolmente sommesso.
Da Brothers in avanti, i Black Keys hanno trovato una formula magica (dollari?) che rischia di invischiare tutto quello che Dan Auerbach tocca: ultimamente sotto la sua produzione sono passati Dr. John con lo splendido Locked Down, Grace Potter & the Nocturnals con il mediocre e The Lion the beast the beat. Sta per allungare le mani perfino sul nuovo astro nascente del soul britannico Michael Kiwanuka. Il rischio di diventare cloni dei cloni  è però sempre dietro l'angolo, tanto il tocco di Auerbach è pesante e presente. E' così auspicabile che dal prossimo lavoro, gli Hacienda si stacchino da papà Dan e provino nuove esperienze, tanto per non rimanere a vita con il marchio e lo sticker (in bella mostra sul cd  e veramente esistente) appiccicato addosso di "gruppo prodotto da Dan Auerbach, quello dei Black Keys". Il disco? Divertente. Non creano false "alte" aspettative ma danno concretamente quello che ci meritiamo in questo scorcio di afosa estate con la cinghia tanto tirata e stretta: spensieratezza.




1 commento:

  1. Molto interessante! Auerbach dovrebbe essere una garanzia... e in effetti Keep It Hid è un bell'album, molto "Americano", ma forse il "brand" Black Keys si distribuisce meglio (?)

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