giovedì 12 gennaio 2012

RECENSIONE: JOSEPH RIDE(Joseph Ride)

JOSEPH RIDE Joseph Ride (autoprod., 2011)


Pochi giorni fa stavo guardando un interessante film-documentario: "Overload -Tribute",(che potete trovare in rete)denuncia il poco coraggio del sistema musica Italia nel dare il giusto spazio a qualcosa di realmente nuovo ed originale. Di quanto i locali, medio-piccoli italiani, preferiscano andare sul sicuro, facendo suonare cover band a scapito degli artisti "coraggiosi" che osano (brutto termine) presentando la loro musica. Coraggio mancante a chi dovrebbe dare spazio ai coraggiosi, ma soprattutto al fruitore medio italiano, che si accontenta dei soliti nomi imposti dal grande mercato discografico.
Joseph Ride è uno di questi coraggiosi (tanti, fortunatamente), e per suonare non pretende troppo, facendosi bastare veramente poco.
Nel giro di un solo mese, anche la provincia di Napoli mi ha fatto conoscere il suo lato americano, così lontano dai sogni stereotipati cantati a suo tempo dal grande Carosone, ma assolutamente in linea con l'alt folk povero che da alcuni anni è stato riscoperto e sta viaggiando nel mondo.
Dopo aver fatto la conoscenza di Guy Littell, ecco Joseph Ride(Giuseppe De Filippis il suo vero nome), cantautore che dopo varie esperienze in rock band, decide di dare sfogo al suo mondo interiore attraverso le sue composizioni. Lo fa con sette canzoni scritte e musicate da lui, che amano giocare con la scarna essenzialità lo-fi, facendo risaltare il messaggio a scapito della perfezione di facciata.
Joseph Ride è un figlio del suo tempo che ama guardarsi indietro, riprendere il meglio della rivoluzione folk degli anni sessanta e immergerla nel nostro frenetico e moderno mondo. Attingere dalle melodie vocali dei "rivoluzionari" Byrds( Canyon sam), dalla California psichedelica ed ombrosa dei sixties nelle tastiere che accompagnano Last December, dalla west coast americana più buia nella ballad country/folk People from your town; portandole a convivere con l'amarezza acustica del grunge "unplugged" in Diggin' e attaccando la spina, quando serve, come nel finale elettrico di Alien Wail.
Composizioni pure, dall'incedere innocente, quasi aprossimative nel loro approccio(Secret in your toy ) che ricordano anche la scena Twee britannica di metà anni ottanta e alcuni suoi protagonisti: con gli scozzesi Vaselines, tanto amati da Cobain e soci, in prima fila. Tutto torna.
Venti minuti che scorrono come un vecchio filmato in super otto, dai colori sbiaditi, con immagini in controsole ed un sogno rock'n'roll che esce rispettoso in The Give-up song, con l'umiltà di chi sa di dover fare (ancora) molta strada.
Sette canzoni che suonano sincere nella loro attitudine DIY. Un'opera prima voluta e cantata proprio così come la si ascolta, lontana da qualsiasi inquinamento sonoro, con il solo aiuto del co-produttore Ferdinando Farro e del bassista Ciro Battiloro su alcuni brani. Un buon antipasto ad un auspicabile e meritato successore.

Sito Myspace

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