venerdì 29 aprile 2011

RECENSIONE: VINICIO CAPOSSELA ( Marinai, profeti e balene)

VINICIO CAPOSSELA Marinai, Profeti e Balene (La Cùpa, 2011)

Sempre uguale a se stesso, nei secoli dei secoli, il mare non è mai mutato, i suoi rumori e i suoi dolci e spettrali silenzi, il sali/scendi delle onde, i suoi odori di vita e di morte sembrano materializzarsi in un disco enciclopedico che ci racconta leggende, miti e altre storie appoggiandosi spesso e volentieri su testi "alti" della grande letteratura che hanno l'acqua salata come protagonista. Se gli ultimi bollettini ci parlano di un mare rivoltoso ed assassino (Tsunami) o di un mare "autostrada" e ugualmente assassino per disperati alla ricerca di lidi felici, il mare di Vinicio è tutto questo e molto di più. Le sue acque diventano anche la nostra vita compiendo un gioco di parallelismi e metafore.
Capossela ha compiuto un impresa d'altri tempi, riuscendo a riunire 19 canzoni monotematiche in due dischi che suonano d' antico e hanno il colore mutevole dell'acqua e le sue tante sfumature, dal verde melmoso all'azzurro più limpido.

Un primo segnale lo aveva lanciato nel 2008 quando in fondo a Carried to dust, disco degli americani Calexico, vi era come bonus track la canzone Polpo, suonata in compagnia del gruppo di Tucson. Quella canzone è diventata Polpo d'amor. Vi è poi stato il tour sempre del 2008 in cui interpretò in mezzo al mare sopra ad una imbarcazione canzoni a tema marinaresco e infine la geniale intuizione che il mare nella sua oceanica vastità poteva diventare ispiratore di mille storie da appiccicare sopra alla vita di ognuno di noi. Registrato in più luoghi, prevalentemente sul mare, prodotto insieme a Taketo Gohara.

Tutto sembra grande in questo disco a partire dall'autore, passando per la innumerevole quantità di strumenti usati, anche quelli improvvisati, gli ospiti, i cori, gli stili. Capossela si veste da bucaniere e ci indirizza verso un mondo pieno di misteri che solo quando toccano terra sembrano diventare realtà. Due dischi come due parti di un solo racconto, con un solo protagonista, ma ben distinti l'uno dall'altro. La prima parte biblica e letteraria, la seconda più Omerica e terrena .
Può sembrare estremamente difficile entrare dentro al disco, come districarsi ed uscire vivi dalla stiva di una grossa nave piratesca, piena di cunicoli, botole e nascondigli. Si può partire dall'inizio e prendersi un'ora e mezza di tempo seguendolo cronologicamente così come è stato concepito oppure andare a zonzo cercando tra i bizzarri titoli delle canzoni, quelle che più ci attraggono alla prima lettura. Il consiglio è di fare l'una e l'altra cosa.

Si parte dal romanzo "Moby Dick" di Melville, quello con le traduzioni fatte da Pavese, nelle iniziali Il grande Leviatano e L'oceano Oilalà, la prima, una inquiteante e abissale overture tra romanzo e citazioni bibliche, la seconda un mix tra ballata medioevale e canto piratesco che si chiude con il più classico coro dei marinai" Date un bicchiere di rum. Noi vogliamo del rum". Il romanzo di Melville è gran protagonista nella prima parte del disco, da cui traggono ispirazione anche La bianchezza della balena, la talkin' opera Fuochi fatui e la piratesca e corale Billy Budd, un blues contagioso e guidato dall'ospite Marc Ribot (fida chitarra del maestro Waits).
La spettacolare Job, ballata con l'esplosione finale in bilico tra Dio e satana, tratta dal "Libro di Job", lo xilofono guida Lord Jim che prendendo spunto dal romanzo di Joseph Conrad, narra le gesta del marinaio inglese complessato dal suo passato (Nessuno è mai protetto dalla sua debolezza...).
In Polpo d'amor, Capossela immagina l'amore sotto le vesti di un polipo con molte braccia per "amare meglio", magari la bella sirenetta Pryntyl protagonista del primo singolo che sembra uscire direttamente da un grammofono dei primi '900, con le Sorelle Marinetti ospiti.

Con il secondo disco sembra quasi di mettere per un attimo i piedi sulla terra ferma. L'uomo ora cerca risposte e se il mare era poco rassicurante e pieno di incognite, la vita lo è nella stessa misura.
Chi smanioso di risposte, si affida agli indovini, Dimmi Tiresia (...ma è meglio sapere o non sapere...a che mi servirà sapere, saper il mio destino come già deve compiersi...), chi si butta sui nettari capaci di alterare la percezione,Vinocolo è un blues elettrico, rumorista e non sense ode al vino tra i miti dell'Odissea, dal carattere waitsiano. Non poteva mancare la citazione alle mappe dei marinai, ossia il cielo e le sue stelle, Le Pleiadi è una ballata pianistica delicata e armoniosa così come Aedo guidata dalla lyra suonata da Psarantonis, uno dei tanti picchi del disco.
La mitologia greca in Calipso si fonde con la musica caraibica, La madonna delle conchiglie, una filastrocca dedicata alla protettrice dei marinai.
Le sirene che cantano il "tempo andato e futuro" chiudono un disco senza punti deboli, dove ogni nota e ogni parola riempiono e saziano la fame di musica.
Ultimo avviso ai naviganti: il prolungato ascolto del disco produrrà dipendenza. Un 'opera che rimarrà negli annali in compagnia delle migliori opere musicali italiane e un artista che conferma la sua voglia di sperimentare con la fantasia.

martedì 26 aprile 2011

RECENSIONE: PENTAGRAM ( Last Rites)

PENTAGRAM Last Rites (Metal Blade ,2011)

Gli angeli ribelli sono duri da scacciare quando sono stati fedeli alleati di vita e di una carriera vissuta correndo( a passo molto lento) sul filo dello strapiombo . Ma c'è un tempo per tutto e Bobby Liebling era arrivato al punto in cui quei compagni iniziavano a diventare ingombranti seppur sempre in linea con la sua band e la sua vita artistica in generale. Può considerarsi un sopravvissuto del rock che a sessant'anni si è rimesso a camminare a centro strada, costruendosi una famiglia e guardando al cielo con una motivata speranza( anche questa conversione è successa) senza perdere il carisma e il carattere istrionico della sua figura, certamente un personaggio a tutto tondo.
I Pentagram sono in giro da quarant'anni, pochi quelli che se ne sono accorti, molti quelli che riconoscono in loro l'importanza e l'influenza esercitata verso un modo di suonare rock. Liebling si è ripulito, ha messo da parte, chissà se per sempre, alcol e droghe e dopo sette anni dall'ultima uscita dei Pentagram, si ripresenta in compagnia del chitarrista storico della band , Victor Griffin.
La storia dei Pentagram si è sempre appoggiata agli anni settanta, anni in cui i nostri non sfornarono nessuno disco ma riempirono il pentagramma musicale di innumerevoli canzoni che ancora oggi sono un profondo pozzo da cui attingere per costruire nuovi album. Non fa difetto Last Rites in bilico tra passato e presente. Veri e propri traghettatori del doom Sabbathiano dagli anni settanta agli anni ottanta , hanno contribuito in maniera sostanziale a far nascere generi come l'Heavy Doom e certo Sludge/Stoner generando centinaia di discepoli. La sapiente e intrigante mescolanza tra la pesantezza dei riff e l'acido blues in stile Blue Cheer è stata assorbita e metabolizzata da schiere di bands che in fila all'anagrafe chiedono la paternità a Liebling e soci.
In Last Rites la chitarra di Griffin è protagonista assoluta tra passeggiate nei più oscuri e sulfurei abissi fino a più rassicuranti melodie(in American dream regna sovrano), i suoi riff e i suoi assoli (che hanno fatto scuola, tanto da essere l'unico vero erede di Tony Iommi) popolano le canzoni, mai così varie e ben costruite. Un disco che gioca sulla varietà degli umori e la voce di Liebling "camaleontica" a dominare sia quando deve essere melodica ed evocativa come nella spiazzante e riuscita ballad Windmills and Chimes, che apre sconfinati spazi tra brezze di vento e campane, sia quando deve seguire la veloce, moderna e quasi stoner opener Treat me right, sfoderando cattiveria e grinta.

Rallentamenti e riff vecchia scuola in Death in 1st person, Walk in blue light, Into the ground , fumosi doom che riconciliano con il passato e consolidano il presente. Menzione per Call the man, ipnotica, cadenzata ed epica marcia con uno strepitoso Griffin che sfodera tutti i suoi effetti da metà canzone in poi e per la psichedelica e trasognante Everything's turning to night.
Dopo un disco così, che potrebbe riaprire porte e consegnare nuovi adepti alla band, si spera che la stabilità si impossessi, finalmente, del futuro consegnando ai virginiani Pentagram l'importanza che meritano al fianco dei grandi nomi del panorama Hard/Heavy mondiale. Perchè se l'Europa ha avuto i Black Sabbath, l'America ha risposto con i Pentagram.

venerdì 22 aprile 2011

COVER ART #1: BILLY JOEL (GLASS HOUSES, 1980)


artista: BILLY JOEL
album: GLASS HOUSES
anno: 1980
fotografo: JIM HOUGHTON
canzoni da ricordare: All for Leyna, It's still rock and roll to me, Sometimes a fantasy, You may be right

Anno 1980, il punk aveva già spazzato via tutto. Occorrevano grandi cambiamenti e molti artisti non rimasero a guardare, chi si buttò sulla discomusic imperante, chi sulla new wave e chi optò per una svolta rock.
Billy Joel esce dagli anni settanta con l'etichetta appiccicata addosso da crooner confidenziale, un "piano man" sulla scia dell'amico Elton John con almeno due hits mondiali come Just the way you are e Honesty che gli garantiranno diritti a vita ed un futuro radioso ed economicamente coperto.
Glass Houses è il disco delle rivincite. La sua personale mossa "punk" scagliata contro chi gli voleva male, critici in primis. Nulla cambia nel successo, confermando Joel come uno dei più straordinari hit maker americani di sempre. Glass Houses diventa presto un altro album di platino da aggiungere in bacheca grazie ai nuovi successi di You May Be Right, Sometimes A Fantasy, All For Leyna, It's Still Rock And Roll To Me, Don't Ask Me Why. Naturalmente la critica rema nuovamente contro, vedendo in questa nuova trasformazione di Joel il tentativo di cavalcare "l'onda" della nascente New Wave.
“Penso che ci sia  stata la percezione che stavo tentando di atteggiarmi come un ragazzo uscito dalla New Wave, ma non era in alcun modo la mia intenzione. La mia intenzione era scrivere roba più adatta da suonare nelle grandi arene”.
Joel, tutto sommato è un combattivo e la sua giovinezza passata a boxare lo sprona a far uscire un disco di rottura, diverso da quanto prodotto fino ad allora.
Ecco che la copertina assume un significato particolare , svelando subito i suoi contenuti rock'n'roll.
Vestito di giubbotto e guanti di pelle nera, jeans sdruciti e stivaletti, impugna una pietra. I caratteri delle scritte, il nome e il titolo dell'album in rosso, fanno tanto "New York Dolls". Il fotografo Jim Houghton, già autore dello scatto del precedente disco di Joel 52 nd Street(1978) e di Powerage e Highway To Hell degli AC-DC, lo ritrae un attimo prima che la pietra tenuta in mano vada ad infrangersi sull'enorme vetrata davanti a lui. Un gesto che assume il significato di rottura con il passato o un atto da teppistello del Bronx, visto anche l'abbigliamento di Joel?
Sul retro copertina viene svelato l'arcano e tutto sembra tornare normale, il primo piano vede il musicista Newyorchese in giacca e cravatta però davanti ad un vetro in frantumi. La pietra , non ci sono più dubbi, è stata lanciata e gli anni ottanta, lo vedranno ancora protagonista.

giovedì 21 aprile 2011

retroRECENSIONE: KRIS KRISTOFFERSON (Closer to the bone)

KRIS KRISTOFFERSON Closer to the bone (NEW WEST Records,2009)

Il vento sbatte la porta socchiusa della veranda, un vecchio uomo texano dalla barba bianca armato di chitarra e armonica è intento ad accompagnare l'arrivo della sera seduto su una vecchia sedia cigolante. La sua voce calda ed avvolgente racconta storie di libertà, dolore e lo fa in solitudine come un vecchio zio che racconta ai suoi giovani nipoti cos'è la vita e come deve essere affrontata. Si mormora che questo uomo fu anche un attore bello e dannato che faceva cadere ai suoi piedi le donne e che scrisse quella canzone che tanto successo portò alla giovane e anch'essa dannata Janis Joplin, sì quella "Me and Bobby McGee" l'ha scritta proprio quel vecchio uomo.
Alla soglia dei settantatrè anni, Kris Kristofferson fa uscire un disco stupendo
, che potrebbe essere benissimo il sesto capitolo mancante delle "American recordings" del compianto amico Johhny Cash. Proprio alle ultime registrazioni di Cash si è ispirato il produttore Don Was per far rinascere la carriera artistica di Kristofferson. Seguendo la strada di Rubin, Was con un operazione di taglio arrichisce la vena malinconica di queste undici composizioni scritte tutte dall'artista texano. Pochi strumenti e band (tra cui il recentemente somparso chitarrista Stephen Bruton e il batterista Jim Keltner) ridotta all'osso rendono le canzoni penetranti e ricche di quel feeling malinconico e struggente che l'ultimo Cash aveva creato. Proprio a Cash è dedicata una delle composizioni più solari del disco, "Good Morning John". Questa canzone è una dedica e un ricordo dell'amico scomparso, che già negli anni sessanta incoraggiò il giovane Kristofferson alla musica. E' inutile negarlo o nasconderlo, lo spettro di Cash esce un pò da tutti i solchi di questo lavoro come nelle crepuscolari "From Here To Forever" e "Holy Woman".
L'iniziale titletrack, già conosciuta ai tempi del supergruppo Highwaymen e sorretta dall'armonica di Kristofferson, protagonista in più tracce e che spesso portano alla mente le prime splendide ballate del giovane Dylan. Closer to the bone è un disco folk dall'anima country, pieno zeppo di dediche, oltre a quella per Cash, troviamo "Sister Sinead", dedicata alla O'Connor e infine la dedica finale al compagno di mille avventure Stephen Bruton, chitarrista della sua band e scomparso poco dopo le registrazioni.
Un disco d'altri tempi
che ben si adatta all'arrivo di un altro inverno, in grado di scaldare anima e cuore, cullati dalla voce roca e saggia di Kristofferson che ci regala anche una traccia nascosta che non fa che confermare la bontà di questo lavoro e la nuova strada intrapresa da questo artista intento a vivere da protagonista anche questa sua fase di fine carriera. Il disco è uscito per la New West records e nella edizione limitata presenta un bonus disc con un live registrato a Dublino nel 2008 tra cui si possono ascoltare alcuni suoi vecchi successi come "Sunday Mornin' Comin' Down".

In origine compare su: http://www.debaser.it/recensionidb/ID_29489/Kris_Kristofferson_Closer_To_The_Bone.htm






lunedì 18 aprile 2011

RECENSIONE: PAUL SIMON ( So Beautful or So What)

PAUL SIMON So beautiful or so what (Concord music group, 2011)

La migliore recensione su questo disco la trovate all'interno del libretto, scritta da Elvis Costello e anche se potrebbe sembrare di parte perchè scritta da un artista, amico e collega, riesce benissimo a rendere l'idea e le sensazioni che l'ascolto riesce a dare.
Paul Simon non conosce confini per la sua arte musicale.Se l'ultimo disco Surprise , uscito nel 2006 fu in tutti i sensi una sorpresa, questo nuovo sembra tracciare un ideale riassunto della sua carriera, raccogliendo al suo interno tutte le esperienze musicali della sua vita, dai primissimi vagiti rock'n'roll sul finire degli anni cinquanta, al pop-folk epocale con Garfunkel, infine arrivando a tutte le direzioni di world music intraprese da solista compreso il poco riuscito tentativo di sposare l'elettronica di Bryan Eno in Surprise, perchè alcune tracce di quell'ultimo strano e poco riuscito lavoro sembrano essere presenti anche qui, ma fanno tutt'altra figura.
Un viaggio senza confini quello di Simon, da sempre esploratore curioso della musica che viaggia fuori dai perimetri americani, in grado di unire il folk con i suoni provenienti dai continenti più lontani e dagli strumenti più strani ed inusuali per un americano nato con il rock'n'roll. Nessuno, forse, poteva pensare che già in canzoni come Cecilia e il Condor Pasa, dell'ultimo disco insieme ad Art Garfunkel, quel Bridge Over Troubled Water, uscito nel 1970 e celebrato a dovere quest'anno con la recente uscita deluxe,Simon stava già piantando i primi germogli della sua futura carriera solista. Una carriera che lo porterà ad abbracciare la world music, inglobandola alla perfezione nelle sue radici musicali. Graceland e The rhythm of the Saints sono stati l'apice di questa ricerca, due dischi premiati da critica e successo.
So beautiful os so what ha un sapore particolare, lieve ma allo stesso tempo pieno di pesanti domande(che vengono rivolte anche agli angeli Questions for the Angels), dove l'amore, come Costello rimarca nelle note di copertina, è presente e fa da guida ad un disco pieno di spiritualità, quella di un uomo di origine ebrea che a settant'anni cerca ancora tante risposte sul significato della vita e su quello che vi è dopo (The Afterlife).
Il sermone datato 1941, del reverendo J.M.Gates, campionato all'interno di Getting ready for Christmas Day è il pretesto per parlare dei nostri giorni e della guerra in Iraq attraverso gli occhi di un giovane soldato che passerebbe volentieri il Natale a casa piuttosto che sui campi minati. Chitarre acustiche a tessere la ritmica in primo piano e la voce sempre calda di Simon aprono il disco. Compare anche la moglie Edie Brickell ai cori (anc'essa fresca di stampa con il suo nuovo disco).
L'Africa di Graceland ritorna nei ritmi di Dizzing Blue e si mischia all'India, dove le percussioni sono anche sillabe vocali cantate da Karaikudi R. Mani.
Il piano e gli archi della ballata Love and Hard Times, tessono il momento musicale più intimo e raccolto del disco. Love is eternal sacred light è un blues che parte come un treno fischiante, il momento più propriamente rock dell'intero lavoro, armonica ed un finale che sale di ritmo.
Echi anni 50 escono dal testo di The Afterlife dove Simon immagina la vita nell'aldilà, in modo scherzoso e leggero, uscendone canticchiando "Be Bop a Lula" su un ritmo groove e trascinante. Amulet non è che un piccolo preludio acustico suonato dal solo Simon che fa da apripista a Questions for the angels, delicata e suonata in punta di piedi. Le chitarre acustiche sono protagoniste anche in Rewrite, sapori africani e un amaro testo sul passato di un veterano.
Il disco si chiude con Love and Blessings , la più americana del lotto e ancora in blues, con la title track, già un piccolo classico al primo ascolto.
Un disco pensato e nato alla vecchia maniera nella testa di Simon che è diventato working in progress, un disco ricco di sfumature anche moderne, rendendolo figlio dei suoi tempi e assolutamente degno successore dei passati capolavori del piccolo artista americano. Testi come al solito superiori alla media e classe da vendere. Finito l'ascolto la voglia di tornare alla prima traccia, è un segnale non trascurabile della bontà di questo lavoro.

giovedì 14 aprile 2011

RECENSIONE: GRAVEYARD (Hisingen Blues)

GRAVEYARD Hisingen Blues (Nuclear Blast, 2011)

C'è poco da discutere, gli scandinavi hanno preso in mano le redini del rock europeo. Ogni sottogenere, dal punk, al glam, dall'hard , al metal più estremo ha dei rappresentanti in grado di rivaleggiare con le grosse ed ingombranti rockstar americane ed inglesi. Terre fredde che sanno riscaldare mente e muscoli.
Non sfuggono a tutto ciò, gli svedesi Graveyard, al loro secondo lavoro, primo per Nuclear Blast. Sono la conferma che, sì, nel 2011 ci si può ancora innamorare di una musica che ha sul groppone quarant'anni d'età. Continuare ad ascoltare il vecchio rock degli anni settanta senza andare a tirare fuori i vecchi vinili, si può, basta distinguere bene da chi lo fa con passione devota e chi salta sopra al carrozzone.
Presentato da una copertina assolutamente strepitosa, Hisingen blues dice già tutto lì, nel titolo, nell'artwork e nelle foto promozionali dei quattro ragazzi svedesi. Per chi non cerca l'originalità a tutti i costi ma solamente il calore e l'anima che l'hard blues dei settanta sapeva emanare. Led Zeppelin, Free, qualcosa dei Black Sabbath, folk, un pò di psichedelia e un suono perfetto .
Il blues che esce dall'isola di Hisingen (quartiere operaio di Goteborg da cui arrivano i nostri) ha il retro gusto, tutto scandinavo ,di chi sa darti un calcio nel sedere per poi ammagliarti con le atmosfere oniriche, malinconiche e tristi. Ascoltate No good, Mr. Holden, un hard-blues che parte lento ed acido e sale con l'ombra del "grande dirigibile" che si posa trasportando la canzone indietro nel tempo quando l'accoppiata Plant/Page rileggieva a modo suo la tradizione. Buying Truth è un rock'n'roll che nasconde in mezzo al bel riff chitarristico un coro ruffiano e un testo polemico contro l'industria discografica così come lo stesso si può dire di RSS.Ain't fit to live here, posta in apertura possiede quell'urgenza compositiva che avevano i grandi classici di Deep Purple e Uriah Heep, un benvenuto di tre minuti tre folgorante ed accattivante.
The Siren è una sporca ballad blues che si illumina di lampi improvvisi e si incendia come una chitarra di Hendrix lasciata a bruciare sopra ad un palco di quei festival lontani nel tempo. Così come Uncomfortably Numb dove le capacità vocali del singer Joakim Nilsson esplodono in un smisurato feeling rock, canzone dalla quale ti aspetti il crescendo che puntualmente arriva appagandoti con l'assolo finale. Perfetta.
Longing è psichedelica e l'Hammond in sottofondo gioca pienamente le sue carte, in una sorta di strumentale psycho-western che solo il nostro Morricone potrebbe scrivere, mentre con Cooking Brew( presente come bonus track ) si va a parare nello Space hardrock.

Per capire in che epoca pensano di vivere questi quattro ragazzi, guardate poi il video della title track, puro hard rock settantiano.
Un disco capace di appagare i nostalgici del vecchio hard rock in tutte le sue vecchie forme, come un disco del Led Zeppelin registrato nel 2011 e capace di infilare nei retaggi dei suoni vintage la modenità e il calore dello stoner, i rallentamenti del doom metal e la passione di certo rock sudista. Più che una sorpresa.




lunedì 11 aprile 2011

RECENSIONE: MIDDLE BROTHER

MIDDLE BROTHER Middle Brother (Partisan Records, 2011)

Sempre difficile riuscire a venir fuori con un buon album, quando i caratteri, le esperienze e l'arte di diversi musicisti si uniscono per formare un'unica entità. Prendendo come metro di paragone i soliti Crosby-Stills, Nash & Young, l'unico supergruppo che ha resistito per fama nel tempo, poco altro rimane. Tornando in tempi recenti, in ambito alternative-folk, l'ultima delusione furono quei Monsters of folk che non mantennero tutte le promesse date anche dall'altisonante e provocatorio nome.

I Middle Brother riescono invece a non stancare per tutta la durata del disco.

12 canzoni che fanno di varietà e freschezza la loro forza, senza essere tuttavia dei capolavori da tramandare. McCauley, Goldsmith e Vasquez, rispettivamente leaders dei loro guppi Deer Trick, Delta Spirit e Dawes lasciano la loro personale impronta in ogni brano.
Dall'iniziale e sognante folk Daydreaming di McCauley, alla seguente Blue Eyes di Vasquez che ruba letteralmente tutto al miglior Neil Young degli anni settanta, in bilico tra chitarra elettrica ed un impianto country/folk. Atmosfere da west coast californiana in Thanks for Nothing di Goldsmith così come in Million Dollar Bill e Wildnerness. Poi delle incursioni nel rock'n'roll anni '50 che danno forza e vigore ad un disco suonato con divertimento e spensieratezza. Middle Brother e il singolo Me,me,me rimandano al primordiale honk-tonk rock'n'roll, mentre Someday con i suoi cori, ci porta alla fun-music della california dei Beach Boys e alle grandi band vocali dei '50. Inclusa anche la cover di Portland dei Replacements.
Brezza fresca che soffia su canzoni calde ed avvolgenti, un progetto che forse rimarrà ancorato a questo solo disco, mantenendo la tradizione che vuole i supergruppi sempre in lotta con la breve longevità dei progetti. Da ascoltare in tutta rilassatezza in questa primavera afosa come non mai. Pensieri azzerati, sole e basta.

venerdì 8 aprile 2011

retroRECENSIONE: KEITH CAPUTO (Died Laughing)

KEITH CAPUTO Died Laughing (Roadrunner Records,2000)

In questi giorni mi sono perso nell'ascolto del primo disco solista di quel piccolo grande personaggio di nome Keith Caputo. Ai piu' il suo nome dirà poco o nulla, a qualcuno ricorderà essere il nome del vocalist di un gruppo dagli esordi Metal-core di New York, i "Life Of Agony", un po' i figli minori dei piu' fortunati "Type O Negative".

Uscito nel 2000 rappresenta il primo disco solista della sua carriera a cui faranno seguito altre tre uscite, aprofittando dello scioglimento della band madre ritornata nel 2005 e tuttora attiva. Nei suoi lavori solisti Caputo prende totalmente le distanze dal suono della band newyorchese preferendo suoni acustici e intimistici. Poche schitarrate quindi ma molte ballad malinconiche e spesso minimali con testi spesso autobiografici.
Keith Caputo è figlio di una adolescenza da non augurare a nessuno.
Figlio di genitori distrutti e sconfitti dall'eroina, Keith si è dovuto costruire una vita da solo con le proprie forze e nella musica ha trovato una via di uscita ed una risposta al suo vivere. Dotato di una delle migliori voci che il rock abbia partorito negli anni novanta, Caputo sfoga la sua rabbia e i suoi pensieri d'esistenza in queste dodici canzoni mature e mai urlate.

Con i Life Of Agony , Caputo urla la sua rabbia, da solista cerca di scavare nell'anima facendo uscire perle come la stupenda "Razzberry Mockery", canzone che avrebbe meritato di più. Ballad che ti si stampa in testa con la descrizione amara della sua triste infanzia negata da certe cose che in età adulta o abbracci con rassegnazione o tieni lontano con tutte le tue forze ancor di più se queste hanno tolto di mezzo la vita dei tuoi genitori.
Poco rock in questo disco, dicevo, giusto l'iniziale "Honeycomb" e le finali "Lollipop" e "Upsy Daisy". Canzoni dal forte sapore grunge e unici pezzi dove compaiono chitarre elettriche. Ad un martire del grunge è poi dedicata la quasi jazzata "Cobain (Rainbow Deadhead)", quasi a voler accumunare la sua vita a quella di Cobain. Ma Caputo non arriverebbe mai a certi compromessi con la vita, la sua voglia di esserci traspare da tutte le tracce e a vederlo non si può provare che ammirazione e simpatia per quest'uomo minuto e quasi buffo dotato di una voce unica.

Nell'ascolto del disco vengono a galla certi amori di Caputo per la west coast californiana come in "Selfish", "New York City", "Home" o per i Beatles psichedelici come in "Just Be" e "Brandy Duval" dove l'uso di strumenti ad arco e orchestrazioni fanno la loro comparsa. Disco in tutto e per tutto intimista che ti entra dentro poco a poco, suonato con passione dall'inizio alla fine, bandito l'uso dell'elettronica a favore di veri strumenti a rendere il tutto più caldo e avvolgente.
Uscito per la Roadrunner, etichetta anche dei Life Of Agony, ai tempi, passò quasi del tutto inosservato così come quasi è sconosciuto Keith Caputo, talento non ancora compreso. Di lui si sono però ricordati i suoi amici musicisti. Possiamo così trovare Caputo nelle backing vocals del fortunato Bloody kisses degli amici Type O Negative (a cui i Life Of Agony sottrarranno il batterista Sal Abruscato), oppure a duettare nel singolo dei gothmetallers Within Temptation "What have you done". Non si è dimenticata di lui nemmeno la Roadrunner che lo chiamò insieme ad altre decine di artisti per la compilation fatta per festeggiare i 25 anni dell'etichetta. Caputo scrisse le lirics e suonò il piano nella canzone "Tired'n'lonely".
Ora sta a voi scoprirlo se già non lo conoscete.

In Origine su Debaser.it http://www.debaser.it/recensionidb/ID_27958/Keith_Caputo_Died_Laughing.htm

lunedì 4 aprile 2011

RECENSIONE: MANNARINO (Supersantos)


MANNARINO Supersantos (Leavemusic ,2011)

ROMANITÀ Un giorno una Signora forastiera, passanno còr marito sotto l'arco de Tito, vidde una Gatta nera spaparacchiata fra l'antichità. -Micia che fai?- je chiese: e je buttò; un pezzettino de biscotto ingrese; ma la Gatta, scocciata, nu' lo prese: e manco l'odorò. Anzi la guardò male e disse con un' aria strafottente: Grazzie, madama, nun me serve gnente: io nun magno che trippa nazzionale! Trilussa

 Roma, per chi ci vive o ha provato a viverla da turista curioso lontano dai cataloghi che promettono meraviglie, ha un magnetismo che difficilmente chi la cerca solamente per i suoi monumenti, riuscirà a scovare. Fortunatamente, in tanti hanno provato a raccontarcela in modo diverso. La Roma nascosta, quella del quartiere Monteverde di Pasolini, quella poetica e bizzarra di Fellini, quella dei rioni cantati negli stornelli romani ed interpretati da Lando Fiorini e Gabriella Ferri, rivive un po' anche nelle canzoni di Mannarino, un cantore che coniuga tutto questo come un Tom Waits nato tra i colli e il Vaticano. Con lui i perdenti hanno la ribalta, anche chi vive a Trastevere e si affaccia alla finestra può diventare protagonista di una sua canzone, basta avere poche prerogative: non essere famoso, tirare a campare e avere qualche vecchia bella storia da raccontare, meglio se d'amore anche se il finale è tragico e fa soffrire. Alessandro Mannarino ha percorso tutte le strade meno battute della sua Roma. Quelle che i turisti americani non toccano. Partendo da Casilina arrivando alla stazione Termini, ha incontrato i vecchi e giovani ubriachi che popolano il bar della "rabbia", le donne di strada, ha fatto amicizia con la comunità rom che popola casilino 900 e ora si è fermato al Vaticano a contemplarne la grandezza e a farsi molte domande. Perchè se sei di Roma , lo stato pontificio è nella tua pelle, nel bene e nel male e devi conviverci. Ed ecco che Supersantos diventa, oltre che il più acerrimo nemico del Super tele, palloni da poche lire, appesi fuori dalle edicole, indimenticati protagonisti di tante partitelle a calcio nei più malandati campetti di periferia, anche un santo "tanto", in carne ed ossa, quello a cui appellarci per liberarci dalla rovina imminente. Mannarino racconta un'apocalisse fatta di distruzione del libero pensiero e costruita su dogmi a volte inconcepibili e difficili da decifrare. Nascoste tra le pieghe delle canzoni sono tante le stoccate indirizzate alla chiesa, alcune sottili da cogliere, altre senza mandarle a dire.
"Serenata lacrimosa-sui gradini della chiesa-ma chi me sente-er vescovo c'ha er microfono e io niente- e lui vorebbe una cosa solamente-che se seccassero tutte le donne- che fà l'amore fosse un incidente..." da Serenata Lacrimosa "C'è chi ha detto " m'hanno derubato i preti e lo stato"- l'hanno condannato più le spese-e adesso fa la questua nelle chiese" da Serenata Silenziosa
In Maddalena ricostruisce a modo suo le sacre scritture, attraverso una tresca amorosa tra la Santa e Giuda arrivando ad una interessante conclusione. Ma in Supersantos, che rappresenta un grande balzo in avanti , anche a livello musicale, il viaggio di Mannarino tocca anche l'Europa e la patchanka di Manu Chao in L'era della gran pubblicitè , il sudamerica, spunti di Capossela ( il quale non ha mancato di benedire il suo figliol prodigo con belle parole), che escono a più riprese in canzoni quali Quando l'amore se ne va o la bella favola Merlo rosso, cantata in coppia con Claudia Angelucci. La tradizione degli stornelli nell'accorata dichiarazione d'amore di State zitta e la romanità che esce prepotente nell'iniziale Rumba magica e il suo colorato e a volte desolato ritratto della Roma di oggi.
"Chi per strada vape strada mòre sotto tangenziali di città e dal policlinico al Verano tutta vita tocca camminà da Gerusalemme al Vaticano tutti quanti fanno inginocchià alzati e balla contromano questa nuova rumba magica"
Mannarino è un personaggio umile ed onesto che ha confermato tutto il buono dell'esordio e si appresta a fare il grande balzo di popolarità.

vedi anche RECENSIONE: VINICIO CAPOSSELA- Marinai Profeti e Balene