giovedì 2 dicembre 2010

DISCHI IN ASCOLTO: recensioni di VOLBEAT(Beyond Hell, Above Heaven) GIANT SAND(Blurry blue mountain)

VOLBEAT Beyond hell above heaven (Vertigo, 2010)

I danesi Volbeat sono il classico gruppo in grado di mettere d'accordo tutti i fruitori di musica rock. Dall'ascoltatore di mainstrean rock, passando dal metallaro più intransigente fino ai fan del punk. La loro formula è quanto di più semplice ci possa essere, partendo da un punk rock debitore dei migliori Misfits anni ottanta, soprattutto nella voce del cantante Michael Schon Poulsen, un esplosivo mix tra Danzig e James Hetfield(periodo Load), il suono tocca il country americano dell'idolo Cash, fino a sfociare nei riff thrash metal in canzoni dall'alto potenziale rock'n'roll vicine alle polveri delle strade americane raccontate dai Social Distorsion.
Il quarto capitolo non si sposta da quanto già proposto in precedenza, viaggiando dritto come un fulmine con la sua musica divertente e con un piede nellla mitologia del rock'n'roll anni '50.
Dalla pesantezza di pezzi come Who they are, 7 Shots, che inganna con la sua intro western per trasformarsi in una metal song quasi maideniana con Mille Petrozza dei Kreator come guest vocalist e Evelyn, Thrash tout-court con le vocals growl di Barney dei Napalm Death. Passando per veloci punk quali A better believer e canzoni vicine al rockabilly come 16 Dollars e Being 1 o al blues come in Heaven nor Hell, con tanto di armonica.
C'è posto perfino per A warrior's call un pesante inno scritto per il pugile danese Mikkel Kessler, probabilmente idolo in patria.
Disco, forse, un gradino inferiore ai precedenti, che ha l'unica colpa di non sorprendere più come le prime uscite ma che comunque centra l'obiettivo di svago che si è prefissato.


GIANT SAND Blurry blue mountain(Fire records, 2010)

Ascoltare i Giant sand , durante le prime giornate di neve invernale può essere un bellisimo surrogato al camino di casa. La band di Howe Gelb , unico superstite dell’originale formazione che negli anni ottanta diede l‘imput alll‘alt-country statunitense, tocca il ragguardevole traguardo dei 25 anni di carriera con un disco bello e rassicurante sullo stato di salute artistica, sicuramente lontano dai capolavori passati, ma in grado di toccare vette compositive di tutto rispetto.
La voce di Gelb, profonda ed intimistica e le atmosfere rarefatte dipingono paesaggi non poco lontani dall’immagine di copertina. Un’America spoglia e desertica, fatta di lunghe distese di praterie, dove la calma viene di volta in volta spezzata da raffiche di vento che alzano polvere e terra. Così come nel disco la lentezza di ballate folk sono squarciate da lampi e riverberi di chitarre.
Canzoni autobiografiche come l’iniziale Fields of green, la vita che scorre in tutte le sue fasi e i suoi spazi e proprio il tempo che scorre e la capacità di coglierne gli attimi sembrano ripetersi spesso(The fast one) durante il disco. L’aver sempre vissuto a Tucson in Arizona è sicuramente fonte di ispirazione per la musica di Gelb supportato dai suoi nuovi musicisti europei.
I sette minuti di Monk’s mountain sono sicuramente uno dei perni del disco, con il suo affresco di natura incontaminata , parte intima e soffusa per chiudersi con una chitarra elettrica vicina ai territori di Neil Young. Ride the rail si regge sull’epicità perduta del vecchio west, una canzone che Johnny Cash avrebbe fatto volentieri sua. Tra ballate pianistiche ed intime come Love a loser, Chunk of coal e Time Flies, spiccano le elettriche Thin line man e Brand new soap thing, che come il vento si abbattono su uno dei migliori dischi di fine anno.

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